“Avanti socio, che ti prende? È ufficiale vecchio mio, sono roba passata”. C’era una volta a Hollywood è il sogno del regista Tarantino sullo schermo, un sogno su come sono stati, ma soprattutto su come avrebbero potuto essere, Hollywood e il mondo del cinema nel 1969. Il titolo stesso rivela dal principio che la storia narrata è una fiaba e come ogni fiaba che si rispetti il film inizia nel contesto magico della mitizzata Golden Age, il cui incantesimo però si spezza subito dopo, lasciando spazio a una realtà molto più dura.
La parabola discendente di Hollywood si riflette nei due personaggi principali, Rick Dalton, interpretato da Di Caprio, divo del cinema che ha smesso di brillare come un tempo e che sa di essere ormai “roba passata”, e la sua controfigura, Cliff Booth, impersonato da Brad Pitt. Colleghi e amici, entrambi fanno fatica a inserirsi in una industria cinematografica che non riconoscono più, in un ambiente in cui ogni decisione è in mano al regista e in cui c’è meno spazio per il loro successo individuale. Tarantino mostra i due attori tagliati fuori dal mondo e li pone in situazioni improbabili: Cliff ripara antenne e prende a pugni la star di un set – uno scontro metaforico tra passato e presente – mentre Rick prende lezioni di recitazione da una bambina.
Nonostante siano i loro vicini di casa, Roman Polanski e Sharon Tate sono l’esatto opposto, poiché proiettati verso il futuro. Il primo è un astro nascente della regia, la seconda è sua moglie, attrice entusiasta di essere una diva, incinta nella realtà e simbolicamente destinata a dare una nuova vita al cinema. Il cambiamento di Hollywood rispecchia il periodo di transizione storica tra gli anni ’60 e ’70 della contestazione giovanile pacifista e del suo lato oscuro e crudele: tale aspetto è evidenziato dal riferimento ai crimini commessi dalla banda di Charles Manson, elemento che minaccia l’ambiente ovattato degli Studios e che aggiunge tensione all’idillio iniziale. La tragedia che avvenne effettivamente in casa Polanski viene però modificata da Tarantino, che ne capovolge gli esiti nel finale. Si tratta di una scelta significativa da parte del regista, che proietta gli eventi nella sua immaginazione facendo del cinema il luogo in cui è possibile consegnarsi ai propri sogni e in cui la finzione diviene inattaccabile dall’esterno.
Da qui deriva il tema metacinematografico del film, basato sulla convinzione che il cinema e la fiaba vincano sempre sulla realtà. Attraverso un ritmo lento e una trama quasi evanescente, viene rappresentato un mondo in cui ogni cattivo è necessariamente sconfitto, un mondo indefinito e sospeso in cui tutto è possibile. In sala infatti viene proiettata una realtà parallela che è in grado di esprimere il potenziale della Storia, che è un suo doppio rassicurante e ingannatore poiché dà l’illusione di poter riscrivere ciò che è avvenuto. Proprio l’alterazione del vero e del tempo è il cuore della pellicola e la sua protagonista non può che essere Hollywood, presentata sotto un velo di malinconia come l’epoca mitica in cui Tarantino era bambino, il cui nastro si può riavvolgere solo grazie alla forza immaginifica del grande schermo.
A questo nodo centrale si collega quello dell’indistinguibilità tra realtà e apparenza spesso ripetuto nel film. Ad esempio, Cliff è la controfigura di Rick, il suo lavoro è esattamente quello di essere il suo doppio. I due sono inquadrati sul divano mentre guardano in TV la serie interpretata da Rick Dalton, che è quindi attore e spettatore contemporaneamente e lo stesso meccanismo si ritrova nella scena in cui Sharon Tate, una Margot Robbie incisiva nonostante le poche battute, guarda estasiata la sua immagine recitare e provocare le reazioni divertite degli spettatori.
In ultima analisi, Tarantino non lascia molto spazio al suo stile del passato, presente solo in alcune sequenze moderatamente violente, ma si concentra su un suo sogno personale che diventa collettivo, affermando la superiorità della finzione sul vero. Eppure la sensazione finale è quella di assistere a un confronto personale del regista con la sua dimensione interiore, senza che lo spettatore riesca a ricavarne nuove prospettive sugli avvenimenti del passato. Personaggi e vicende sono relegati in un sogno che al cinema può rappresentare la realtà, ma che non potrà mai definire il mondo esterno oltre lo spettacolo.
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