Porti chiusi, porti aperti: non soffermiamoci più di tanto su questi slogan, aveva detto il bis-premier Giuseppe Conte, che poi era volato subito a Bruxelles dalla Ursula Van der Leyen, presidente della Commissione europea, per ridefinire un’accoglienza (quasi) istantanea degli immigrati sbarcati sul suolo patrio. E poi, per lo stesso motivo, aveva controllato da New York il ministro dell’interno “tecnico” Luciana Lamorgese riunito in quel di Malta.
Insomma, ci risiamo. La questione – passata e forse archiviata la sgangherata buriana salviniana che ha scosso gli animi ma prodotto molto astio e risentimenti – viene ancora trattata secondo gli schemi del “tanto a me-tanto a te”: Italia, Francia, Germania, Malta (se ne parlerà meglio e in concreto in questo mese di ottobre) si sarebbero impegnate a assorbire gli immigrati in quota parte, indipendentemente dalla nave ong che li ha portati in salvo e dal primo punto di approdo, che è di norma e spesso l’Italia per la sua favorevole (agli immigrati dall’Africa e dalla Libia) posizione geografica.
Siamo però ancora ai preliminari e a alla terapia sintomatica di un problema che non viene affrontato all’origine. Il presidente francese Macron fa differenze tra i migranti – cioè tra i richiedenti asilo e i fuggiaschi da bombe e guerre in cui proprio i francesi avrebbero molto da dire – e i migranti economici, cioè – e qui si sta un po’ sulle generali – coloro i quali fuggono dal loro paese perché stanno morendo di fame, perché non hanno un lavoro, perché duramente sfrattati dai mutamenti cimatici, perché semplicemente vogliono mutare le loro condizioni di vita…
Delle ragioni di una migrazione dall’Africa destinata a crescere, del fatto che tra una ventina d’anni un miliardo e passa di individui in giovane età premeranno ai confini di un’Europa vecchia e decadente, stanti queste medesime condizioni, nulla si dice.
Da un punto di vista politico (ed elettorale) il problema migratorio è quello maggiormente percepito: non è certo il primo grande problema ma la sua “soluzione” dà maggiore visibilità e più o meno consensi a chi lo affronta. E purtroppo, anche per tale ragione, finora questa visibilità è stata sempre transitoria, superficiale per non dire tragica. La questione delle ripartizioni dei profughi, delle chiamate in causa degli altri Paesi europei (che è la più evidente con le rumorose e produttive – sul piano elettorale – smargiassate salviniane) non è mai andata all’origine del problema.
Tuttavia è strano che né i nostri “nuovi” governanti né l’Europa, come si dice, lo affrontino con la prima urgente – e non certo complicata – decisione da prendere, ormai suggerita da quasi tutti gli esperti e studiosi, compreso papa Bergoglio ingiustamente considerato un capo dei “buonisti”. Si parla della riapertura, controllata e gestita insieme con i paesi di origine e provenienza, tramite accordi diplomatici, di canali regolari di immigrazione. È il solo modo per togliere dalle mani della criminalità e delle mafie (libica, nigeriana, russa, albanese, nostrana…) centinaia di migliaia di disperati, destinati crescere.
È altrettanto evidente, come e più di una provvisoria ripartizione, che una tale politica di intervento – opportunamente fatta conoscere con chiarezza da politici e media – non possa essere gestita solo dall’Italia che come s’è appena detto per la sua natura geografica ne è magna pars, ma dall’intera Ue, unico valido e responsabile interlocutore.
Solo in secondo piano si dovrebbero mettere le questioni della ripartizione, con un occhio di riguardo anche alle nostre – italiane – politiche di investimento nella cooperazione: è noto che del budget a disposizione negli ultimi anni, oggi ne sia restato solo un terzo (17 milioni di euro) e per lo più indirizzato (pro domo nostra…) soltanto verso Paesi in cui l’Italia ha interessi economici (talora anche militari) da tutelare.
Ne ha scritto (vedremo nei particolari come si delineerà l’accordo maltese) in un suo recente articolo sul Corriere della Sera Federico Fubini, giornalista molto attento, concreto, ottimo conoscitore delle politiche europee.
Non accade. Ma, ancora, dovrebbe apparire evidente a tutti che una politica – benché utile – totalmente incentrata sulla redistribuzione (come quelle sui respingimenti o sulla polemica strumentale con le ong o con la realizzazione di campi di contenimento, cioè lager in alcuni siti di partenza, vedasi Libia) non è niente affatto risolutiva ed è probabilmente destinata di nuovo a fallire.
Il peso dell’Europa (e dell’Italia) si deve far sentire soprattutto e proprio nei paesi di partenza e di origine delle migrazioni. Il fenomeno va regolarizzato, cosa che potrebbe e dovrebbe normalizzare anche le presenze sui nostri territori dei migranti economici, che sono la stragrande maggioranza. Eventuali rimodulazioni potrebbero poi avviare pure procedure di rientro.
Non si tratta perciò di attuare provvedimenti anti-Salvini o anti-sovranisti perché i problemi si sono sviluppati e incancreniti anni prima dell’avvento nella nostra politica interna di quel vociante ministro. E non a caso Fubini nel suo articolo sul Corsera caldeggiava, oltre tutto, “investimenti” diretti dell’Europa all’esterno, almeno nell’Arica subsahariana per riprendersi, da lì, il controllo dei flussi. Non so se sia il caso di bene sperare per il futuro. Oggi – ha scritto Fubini – Bruxelles vi spende in proporzione molto meno di quarant’anni fa.
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