Per gli amanti del ciclismo è facile, quasi doverosamente scontato, rendere omaggio a Fausto Coppi nel centenario della sua nascita. E lo è ancora di più per i varesini che ben conoscono i campioni locali, i Ganna, i Binda e che ricordano i campionati mondiali del 1951 o quelli del 2008: una provincia che si può definire, non solo metaforicamente, che pedala.
Andare oltre alla retorica celebrativa di un anniversario è – forse – più difficile. Importante, invece, è per tutti ripercorrere non solo una vita, quella che nella memoria collettiva è il “campionissimo”, ma anche rileggere e narrare una pagina di storia italiana.
Per quelle misteriose coincidenze che a posteriori amiamo trovare Fausto Coppi nacque nel 1919, l’anno della prima corsa Bertocchi, classica gara dei velocisti e della nostra Tre Valli. Ma l’8 settembre 1919 fu anche il giorno di nascita di Gianni Brera, penna indimenticabile del giornalismo sportivo che scrisse nel 1981 un romanzo dedicato al campione, o meglio alla vita di un uomo punteggiata da gioie e da errori.
Coppi e il Diavolo, questo è il titolo, merita una lettura perché ha pagine bellissime di una letteratura, quella sportiva, che non dovrebbe essere considerata marginale. Il tutto con lo stile moderno, innovativo, quasi immaginifico di Brera.
Fausto Coppi è stato ben narrato anche da Buzzati, da Montanelli e da Orio Vergani. Indimenticabile per tutti, amanti o no del mondo del ciclismo, è il racconto che Dino Buzzati, inviato del Corriere della Sera dedicò a Coppi (e a Bartali) in occasione del giro di Italia del 1949, definendo il ciclismo “l’incanto del pedalare emerso dall’infernale fatica” e paragonando i due campioni a due eroi epici: Achille ed Ettore, Scrisse: Ma a che cosa servirebbero i cosiddetti studi classici se i loro frammenti a noi rimasti non entrassero a far parte della nostra piccola vita? Fausto Coppi certo non ha la gelida crudeltà di Achille: anzi, tra i due campioni, è certo il più cordiale e amabile. Ma in Bartali anche se scostante e orso, anche se inconsapevole, c’è il dramma come in Ettore, dell’uomo vinto dagli dei”.
Dunque narrare, descrivere, far emozionare non rinunciando a capire non solo il campione ma l’uomo. Lezione ancora valida, anzi validissima. Coppi, l’airone del ciclismo perché le sue gambe erano ali capaci di volare. Forse ricordarlo oggi serve anche a questo: a fare volare noi, a farci andare oltre. Il che significa avere uno sguardo diverso sul mondo.
Ricordiamo, dunque, un campione: lui che fu prigioniero per due anni durante la seconda guerra mondiale in Africa, il più giovane vincitore del Giro d’Italia il 9 giugno 1940 (e ben sappiamo la tragedia che iniziò il giorno successivo), il ciclista che vinse nel 1955 la Tre valli Varesine, a cronometro. E lui, la leggenda del ciclismo che vinse nel 1949 sia il Tour di Francia sia il giro di Italia, scelse di non vincere la gara organizzata nel dicembre 1959 nell’allora Alto Volta ma che a seguito di quel viaggio contrasse la malaria che lo uccise a soli 41 anni.
Un uomo solo al comando: la celebre narrazione di una sua corsa. Solo al comando nello sport, nella vita e non in altro, in quell’Italia che – non a torto – si continua a definire povera ma bella. Senza dimenticare una frase attribuita ad Einstein: ”La vita è come andare in bicicletta. Per restare in equilibrio devi muoverti”.
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