Certo Salvini non pensava che la legge sulla legittima difesa sarebbe stata brandita dall’ex sodale Di Maio assieme all’ex tradizionale competitor Zingaretti. Affondato il governo, chieste elezioni subito, rivendicati i pieni poteri: il programma, ai primi d’agosto, era semplice e giudicato facilmente realizzabile. Macché. In reazione al suo autogolpe, un altro governo è nato, la legislatura prosegue, il voto si allontana. Non solo: i Cinquestelle recuperano popolarità, i democrats risorgono dal purgatorio/limbo, l’alleanza ritenuta impossibile potrebbe allargarsi dal livello nazionale al piano locale.
Di Maio lancia l’idea d’una intesa civica per le regionali d’Umbria, e Zingaretti dice che potrebbe starci. Dunque torna giocabile una partita che pareva chiusa prima d’aprirsi, e sembra inutile il refrain del Capitano impegnato a denunziare inciuci, voltafaccia, poltronismi. La politica è questo: se sbagli una mossa, rischi di pagare carissimo. La Lega resta favorita in una sfida amministrativa che vede la sinistra imbarazzata da Sanitopoli; ma se la sinistra si mimetizza dietro candidati non di partito e i pentastellati fan lo stesso per evitare l’ennesimo rovescio, gli avversari del salvinismo non partono battuti.
E questo è il danno 1. Il danno 2 colpisce in prospettiva il centrodestra radicalizzato dall’ex ministro degl’Interni. Tanto clamore, tanta piazza, tanta protesta, tanti voti e però tanta irrilevanza. Perché al dunque, cioè quando necessita governare dopo overdosi di propaganda, emerge un deficit di moderazione che impedisce la conquista istituzionale. E, per converso, viene favorita l’alleanza contro, composta da quanti avvertono l’esigenza di tutelarsi dall’aggressività del sovranismo estremista. In Francia la Le Pen sta in cima ai consensi da anni, ma essendo percepita come un pericolo dal resto del Paese, è confinata in una sterile minoranza. Lezione capìta dall’ungherese Orban, che ha dato i suoi voti per l’elezione della nuova presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. E capìta dai superdestri dell’Afd di Sassonia, quasi genuflessi nel domandare ospitalità politica al Ppe.
Salvini no. Procede in direzione opposta, mal sopporta il rapporto con Berlusconi, lo gratifica il ruolo di campione delle rabbie sociali e della contestazione perpetua, ma di concreto gli resta in mano nulla. Cioè l’opposto di quel che ci si aspetta da un grande leader, ovvero un uso politico del consenso, e non soltanto demagogico. Tra l’altro all’orizzonte si profila un avversario (un idem-acrobata: trapezio versus trapezio) insidioso per lui: Renzi che annunzia gruppi suoi alla Camera e al Senato, gettando le basi d’un nuovo partito attento all’elettorato di centro, pescherà al prossimo round nel bacino del giacobinismo mite, stanco di vuote parole e desideroso di fatti concreti. Giacobinismo mite vuol dire essere progressisti liberal: rompere gli schemi sapendo con quali altri sostituirli, nella convenienza della grande area di mezzo.
Ps
Diventando azionista in proprio del governo Conte, Renzi godrà d’alcuni vantaggi. Avendo suoi gruppi parlamentari otterrà finanziamenti, parteciperà ai tavoli delle trattative (nomine comprese), sarà determinante nel garantire la vita dell’esecutivo. Non deciderà più Zingaretti per lui, deciderà lui per sé stesso. Il premier è stato rassicurato: non corre rischi. Ma anche Letta lo fu. Di fatto, l’esecutivo è un pentapartito: Cinquestelle, Pd, Leu, Italia Viva (partito di Renzi), Maie (partito degl’italiani all’estero). Si torna al passato remoto, nell’attesa d’una legge elettorale proporzionale che completi il rivoluzionario/conservatore vintage. Ecco cos’è il vero cambiamento: l’apoteosi del trasformismo.
Tuttavia e infine: perché escludere che lo spirito di rivincita, l’affezione al potere, l’esibito narcisismo di Renzi non coincidano con una visione politica che fa gl’interessi degl’italiani, o almeno d’una loro gran parte? Se -con il suo sostegno, se non per sua iniziativa- il governò assumerà misure che molti attendono da tempo, il fine giustificherebbe il mezzo. Cioè l’uomo. Tanto da poterlo rinominare, più e meglio del premier Conte, il Machiavelli del popolo italiano.
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