Caduto Gheddafi nel 2011, la Libia soffre in permanenza di un conflitto civile devastante, che vede protagonista a Tobruck il generale Khalifa Haftar, uomo forte nella Cirenaica, mentre a Tripoli, sostenuto dall’Onu, c’è il governo guidato da Fayez al-Sarraj.
Haftar,dopo la sconfitta militare riportata in Ciad nel 1980, si è rifugiato a lungo negli Stati Uniti, tornando a distinguersi all’epoca della rivolta contro Gheddafi. Crea l’Esercito nazionale libico e libera Bengasi dalla presenza di milizie islamiste di ispirazione salafita. Gode dell’appoggio di alcune potenze regionali quali l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, interessati a prevenire l’insorgere di movimenti radicali. Il 17 dicembre 2015 i due governi libici firmano in Marocco un accordo di pace; nel marzo 2016 nasce il Governo d’accordo nazionale con fortuna ben scarsa.
Al-Sarraj non riesce a controllare l’intero territorio nazionale, frammentato dalla pluralità di identità locali, funestato dall’imperversare delle bande. La sua credibilità, sia all’interno che in sede internazionale, risulta sempre più compromessa.
Lo scorso 4 aprile Haftar lancia un’offensiva militare per prendere possesso di Tripoli, controllata dalle milizie del Governo d’accordo nazionale; in precedenza la sua azione si è dispiegata con successo nella regione di Fezzan (Libia meridionale).
Il controllo di alcuni centri strategici gli è necessario per allargare sempre più la sua area di influenza, quasi senza colpo ferire o col sostegno di gran parte della popolazione.
Non sono mancate accuse d’avere perpetrato crimini di guerra. La prospettiva è quella d’entrare a Tripoli come salvatore della patria. Lo scontro comunque appare sempre più di carattere non ideologico, bensì dettato da interessi opportunistici. Solo che Haftar ha chiaramente sovrastimato le proprie forze e sottovalutato la resistenza.
Gli scontri sono concentrati nella zona periferica della capitale, con grave rischio di perdite umane nei centri ove, in condizioni deprecabili, terrificanti, sono rinchiusi gli emigranti in attesa di imbarco: si è registrato già un centinaio di vittime.
Non si sa quanto possa durare l’attuale precaria situazione di stallo, come si possa trasformarla in una campagna decisiva per Haftar, al di là degli appelli e di fronte all’impotenza dell’Onu (le dichiarazioni di facciata non sono risolutive. L’Unione europea è ancora divisa e incerta nell’approccio tra Francia, per cui gli interessi petroliferi si impongono su ogni istanza di pace e l’Italia; gli Stati Uniti si sono tenuti sinora su posizioni molto ambigue (Trump pare riluttante a impegnarsi su nuovi teatri di crisi ). Intanto un minimo coordinamento tra le milizie di Tripoli s’è dato, Misurata si è schierata con la capitale, la catena di rifornimenti per Haftar si mostra molto lunga e in zona desertica. Certo Haftar constata di non trovare grandi argini alla sua azione; anche quando si siede ai tavoli dei negoziati è troppo spregiudicato nell’assecondare i suoi disegni.
Per quanto concerne l’Italia, la Libia rappresenta certo una priorità per la nostra politica estera (flussi migratori, approvvigionamenti energetici). Haftar è sempre stato lontano dal favorire i nostri interessi dopo il fallimento della Conferenza di Palermo. Il presidente del consiglio Conte ha cercato di dare ruolo e significato alla nostra centralità, ma il nostro posizionamento neutrale per esprimere una politica di equilibrio non pare purtroppo foriera di grandi risultati.
Il rischio è che la divisione fra regioni orientali e occidentali rimanga comunque irrisolta. La Libia rimane un Paese dalle istituzioni inesistenti. Si continuano a temere stragi, come quella operata nella notte tra il 2 e il 3 luglio dalle truppe di Haftar con il bombardamento di Tajoura, un centro profughi.
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