In Savoia, dove mi sono rifugiato per un periodo di riposo, il mese di agosto è stato molto caldo, afoso, interrotto da temporali accompagnati da tuoni che facevano rintronare i vetri della finestra, da lampi violetti o verdastri, da acquazzoni violenti. L’indomani i viottoli erano nuovamente secchi, pieni di polvere e di sassi. Alla frescura s’alternava la fatica affannosa dovuta al procedere sotto un sole cocente. Anche il cuore alternava momenti di dolcezza e di bellezza offerte dalla serenità del luogo con le immagini che, la sera, la televisione portava in casa: povera gente stivata in barconi, stermini compiuti nelle terre in guerra, sangue di donne e di giovani massacrati da feroci violenze, prigionieri denutriti, incendi o inondazioni dovuti ai soprusi perpetrati dall’ avidità dall’uomo contro il creato.
E sui giornali che lassù arrivavano con due giorni di ritardo leggevo della prepotenza del potere, dell’arroganza di certi politici, dell’ostinazione di altri che non vogliono sentire ragione e adottano come unico metro il loro volere ottuso e caparbio.
Leggevo di un politico italiano che davanti ad un popolo osannante dichiarava che la sua volontà era superiore alle ragioni addotte dagli altri, che egli poteva prevalere contro i poteri forti perché lui era stato eletto dal popolo. Leggevo che la sua ostinazione era l’unico metro per sconfiggere l’invasore “negher”, che, stremato, sotto il solleone, con poca acqua, ansimava da giorni su un barcone in attesa di approdare in qualche porto.
La sera, nel cerchio di luce dello schermo televisivo, osservavo lui a torso nudo, attorniato da cubiste in bikini. Ascoltavo i suoi comizi, nelle piazze o nei lidi romagnoli, durante i quali chiedeva, in modo deciso e stentoreo, senza esitazione o remore, i pieni poteri. Ciò che mi colpiva di più erano il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui offriva il mantra delle sue accuse contro tutto e tutti. Perfino in Senato, nella sede in cui doveva difendersi dalle accuse di aver debordato dalle sue funzioni e invaso quelle dei suoi colleghi ministri, accuse mossegli poco prima dal suo presidente, aveva adoperato un fiume impetuoso e petulante di parole per conquistare gli “osanna” dei suoi fedelissimi. E così, oltre a dimostrare una sostanziale immaturità ed impotenza, ammantata dalla forza verbale, faceva crescere negli ascoltatori un senso di rifiuto verso la cattiva politica di cui egli era il propagatore. Umiliava la democrazia nella quale la parola è difesa, non scherno, della ragione.
Alla sera, seduto sulla panca posta all’ingresso dell’alpeggio, nel silenzio che solo l’alta montagna ti può offrire, pensavo al tempo di passioni tristi nel quale tutti viviamo. E riflettevo sulla tristezza che si accompagna l’eclissi della speranza. Il mio pensiero riandava al mito di Narciso e a quello che a lui era impossibile: l’attesa, lo slancio verso il futuro. proprio la caduta delle attese che ci ha portati a perdere il senso di appartenenza al passato e di avere speranza nel futuro. sparito il senso della comunità ed è riemersa la massa, si è disciolto il senso dello Stato assorbito dal fanatismo della massa, l’iper-liberalismo ha valorizzato l’individuo, distruggendo la persona che forma il popolo.
Una mattina, Pierre, il pastore che ci ospita, mi viene incontro tutto scalmanato sventolandomi il giornale locale che riporta la fotografia del nostro politico il quale agita con forza da un palco la corona del Rosario. Per Pierre, francese, è inconcepibile che un politico usi un simbolo religioso per fare politica. Nella laicissima Francia vige una legge del 1905 sulla laicità dello Stato. Al mio amico cerco di spiegare che in tutto l’occidente sta ricomparendo lo sfondo magico della religiosità. Sta nascendo una specie di nuovo clericalismo che si nutre d’intransigenza, di posizioni difensive, di fanatismo e settarismo. Sono i sovranisti che lo esigono e lo propagandano perché – come ha scritto Stephen Bannon – il nazionalismo si regge solo se fondato su una chiara identità religiosa. Inoltre il vero nemico dei populisti è papa Francesco che non cessa di richiamare l’universalismo del messaggio evangelico. Il che cozza contro il sovranismo nazionalistico. Il nostro italiano bacia crocifissi, corone del rosario, invoca la protezione dei santi patroni d’Europa e la benedizione del Cuore Immacolato di Maria, cita San Giovanni Paolo II allo scopo d’accattivarsi il voto dei sovranisti.
Ora questa stagione sembra finita: “Il re è nudo” verrebbe voglia di dire. L’imbonitore continuerà con i suoi mantra (“Ruotano attorno alle poltrone”, “Prima gli italiani!”, “ un governo fasullo nato con la benedizione di Bruxelles, di Macron, della Merkel”), il popolo a lui fedele lo seguirà come i topi seguivano il pifferaio magico, ma una parte di esso sta sostituendo all’illusione della conoscenza la ricerca della verità, raccoglierà informazioni, analizzerà i dati, si formerà un pensiero critico, accertandosi, prima di parlare, che la parola sia collegata al cervello: questa è la nostra speranza.
Essa si realizzerà a tre condizioni: che il nuovo governo sia franco nel parlare alla gente, ma in Parlamento, e non attraverso i twitter, che all’arroganza si sostituisca l’abnegazione (sì, lo so, è una parola desueta, ma occorre che venga ridestata!) per il bene di tutti, che l’odio venga rimpiazzato dalla solidarietà. Tre punti che dovrebbero essere la stella polare di un programma di governo. Tre punti che ho ritrovato oggi nel discorso programmatico di Conte. Dopo le parole ci aspettiamo i fatti. Rispettare la parola è una condizione perché maturi la società. Abusare della parola equivale a disprezzarla.
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