Le estati di me fanciullo cominciavano per davvero in luglio. Quando il caldo si metteva a far sul serio, venivo traslocato a Sant’Ambrogio Olona, dai nonni paterni. Vivevano in una casa di ringhiera, assieme ad altre due famiglie, in via Vannucci. Stava di fronte alla Carrozzeria Bianchi, tutt’intorno molta campagna, sparute case, grilli e maggiolini, cicale e api. Più in là, sullo sterrato che conduceva a Masnago, una fattoria dove la sera s’andava a prendere il latte, al ritorno spesso rovesciato dai secchielli, adibiti a pali di fantasiose porte calcistiche. Dico ‘adibiti’ perché i secchielli erano tanti quanti i ragazzi della brigata locale, di cui entravo nei ranghi al mio arrivo e con la quale spartivo giochi, incombenze di servizio, frequentazioni oratoriane, monellerie stravaganti.
La vita in campagna m’intrigava, nel suo rustico glamour. L’abitazione dei nonni era su due piani, un paio di stanzoni sotto e idem sopra, uniti dalla scala esterna in comune tra gli inquilini e presidiata da un maestoso gatto tigrato. Fuori, giardino orto e un capanno che ospitava alcune galline, qualche coniglio, gli attrezzi per curare piante e ortaggi. A un tavolo in granito grigio e rosa, fiancheggiato da panchine di scomodo sasso, ci si sedeva la sera. Cena frugale e veloce: subito dopo continuavano le avventure di noi ragazzi della compagnia, fin quando il buio calava fitto.
Talvolta saltavo un giro perché passava a prendermi, con una Volkswagen grigia, mio zio Franco. Beveva un vermouth rosso, fumava almeno due Turmac piatte e profumate, infine partivamo per qualche paese del circondario: Brinzio, Bedero, Cabiaglio. Il suo scopo era di scambiar parola e buttar giù un grappino con i superstiti della ritirata di Russia, rari amici rimastigli d’una tragedia da lui incrociata come capitano dell’esercito. Il mio scopo era d’assistere incuriosito, pur se tra picchi di spavento, a tanto e intenso affabulare. Gli occhi di chi rievocava luccicavano, a volte bagnandosi e rigando le guance scavate. Io capivo e non capivo, di sicuro mi emozionavo. Succedeva di rientrare tardi, e il nonno Adolfo, girellando tra le mani un bastone, aspettava nervoso sull’uscio che gli venissi riconsegnato.
Era un uomo rigoroso, severo, militaresco. Spiccavano sul volto i baffi alla Vittorio Emanuele, cui dedicava cure mattutine: li arrotondava all’insù stirandoli poi con un nastro di cotone che gli cingeva l’incarnato ed evidenziava la testa calva punteggiata da cortissimi capelli bianchi. Stava atteggiato in tal guisa a lungo, passeggiando avanti e indietro sul ballatoio, ogni tanto specchiandosi per controllare se l’evoluzione del procedimento fosse corretta: temeva il giudizio degli avventori del Caffè Siberia, di cui era un habitué. S’era dato questi ritmi lenti dopo il ritiro dal ruolo di capomastro dell’impresa Piccoli, costruttrice di grandi alberghi come il Grand Hotel di Campo dei Fiori e il Regina Palace di Stresa, ville Liberty, fabbriche e pubblici edifici, per esempio l’ospedale di Circolo. C’è una foto scattata nel 1910 che ritrae il nonno assieme ai partecipanti all’opera, più di cento davanti al manufatto di viale Borri appena ultimato.
La nonna Erminia faceva la sarta, oltre a sovrintendere con dolce autorevolezza al ménage familiare. Aveva posizionato la macchina da cucire Singer davanti a una porta-finestra per ricevere il massimo della luce, e vi stava chinata ore e ore. Brava a confezionare abiti, lo era anche nel rammendo di giacche, calzoni, gonne, camicie. In epoca di povertà ancora diffusa, una simile perizia godeva di largo apprezzamento e spesso veniva ricompensata dall’umile generosità popolare: il paniere d’uova, un involto di pane casereccio, il cestello coi frutti di bosco appena colti e via così. Le piaceva leggere, e sul comodino di noce scuro conservava pile di rotocalchi che mia zia Enrica le regalava ogni settimana. Coglievo l’occasione della vacanza per sfogliarli, appassionandomi a rievocazioni storiche, retroscena su attori e teste coronate, resoconti d’imprese sportive.
Quando arrivava il giorno del ritorno a casa, nel centro di Varese, presagivo l’azione dell’ago della malinconia sulla pelle del sentimento. Avvertivo la puntura durante il viaggio, guardando dal finestrino della Fiat Seicento i massicci paracarri del viale Aguggiari, che scorrevano veloci e parevano mandare rapidi cenni di saluto. In seguito non rilevavo nell’animo ematomi di mestizia, perché sicuro che si trattasse d’un arrivederci: si voltava una pagina, ma il libro della vita ne contava ancora molte, e avrebbe narrato nuove, belle storie. In quei perduti anni l’estate dell’ottimismo non finiva mai, tenendo lontane le nuvole della solitudine, il cielo incupito di chi non ha avuto in sorte né fratelli né sorelle. L’inverno, come sempre, sarebbe stato meno rigido, riscaldato dai raggi del ricordo.
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