I fenomeni che provocano danni devastanti in grado di rompere in modo irreversibile gli equilibri che garantiscono la vita di molte delle specie che abitano la Terra continuano la loro folle progressione distruttiva. Ma la politica quotidiana tratta d’altro, si occupa di “contratti di governo” fantasmagorici e di fatto nega che il cambiamento climatico sia la maggior preoccupazione del futuro.
La parte occidentale dell’Antartide si sta sciogliendo da decenni ma gli scienziati hanno verificato che comincia a sciogliersi anche quella orientale. Il livello dei mari si alza e la desertificazione avanza. Gli effetti del riscaldamento globale favoriscono però nuovi profitti con l’estrazione di minerali e nuove rotte di navigazione. L’aria è sempre più irrespirabile e siamo sommersi dalle plastiche, che ingeriamo in quantità ormai misurabili. Le contromisure adottate dai governi del mondo restano irrisorie, fermare questa folle corsa è forse – ancora per poco – possibile ma dipende da noi
Quanto alle strategie di intervento per una rapida riduzione delle emissioni dei gas serra, CO2 e metano in primo luogo, sarebbe opportuno che invece di enunciare gli obiettivi finali – come il dimezzamento entro il 2030 e la scomparsa delle emissioni entro il 2050, indicate dall’IPCC nel rapporto speciale dell’ottobre 2018 per ribadire l’importanza di non far superare il grado e mezzo al riscaldamento globale – che Stati e scienziati cominciassero a precisare le date successive, a cominciare da domani, della eliminazione delle fonti (chiusura delle miniere di carbone, riduzione delle prospezioni e delle estrazioni petrolifere, riduzione degli impianti industriali e dei consumi familiari, e così via) in modo da poter discutere di impegni concreti ed essere in grado di verificare l’effettiva realizzazione delle fasi indicate a partire da oggi, evitando cioè il rischio di trovarci tra cinque o dieci anni a dover constatare che nulla o poco è stato fatto.
È opportuno precisare che non stiamo parlando della normale necessità di verificare l’attendibilità degli impegni politici, ma del rischio di far trovare l’umanità nella impossibilità di effettuare interventi risolutivi, cioè di aver superato i “punti di non ritorno” di ciascuno dei fenomeni climatici e ambientali più gravi. E ciò potrebbe determinarsi non in un futuro indefinito ma nei prossimi undici anni secondo gli ultimi rapporti degli scienziati, non solo di quelli dell’IPCC.
Eppoi c’è il problema della plastica che oggi è alla ribalta dell’attenzione. Il micidiale meccanismo della sua diffusione le cui dimensioni sono ormai ben note, dopo la scoperta delle grandi “isole” nel Pacifico e ora dell’accumulazione anche nel Mediterraneo. Dieci fiumi trasportano tra l’88 e il 95% della plastica che finisce negli oceani, otto sono in Asia (Gange, Indo, Fiume Giallo, Fiume Azzurro, Haihe, Fiume delle Perle, Mekong e Amur) e due in Africa (Nilo e Niger). Tutti questi fiumi attraversano zone densamente popolate e i loro rifiuti non vengono trattati adeguatamente. Una volta negli oceani, la plastica si accumula in grandi ammassi, lentamente si frammenta in pezzi microscopici e infine si deposita a grande profondità. Molecole di plastica sono state trovate ai diecimila metri della Fossa delle Marianne e nel Mediterraneo nelle fratture del fondo marino, oltre ad essere ingerite con effetti nocivi da pesci e uccelli marini. Ma il dato più preoccupante per gli esseri umani è descritto in un recente rapporto del Fondo Mondiale per la Natura, che ha stimato le ingestioni medie settimanali di plastica in almeno 5 grammi, in pratica il peso di una normale scheda di riconoscimento bancario o sanitario.
Forse vedere i nostri figli giocare al mare in mezzo a pezzi vari di plastica costituirà uno stimolo sufficiente per azioni individuali e collettive.
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