Una sera mi sono trovato a cena da mia figlia Cecilia con ospite la sua baby sitter Maria, una signora già sessantenne che accompagna i miei nipotini Matilde e Saul a scuola e li va a prendere; poi li cura a casa sino a quando la mamma non ritorna dall’ospedale. Ho così avuto modo di ascoltare la sua vita avventurosa che ritengo molto importante per non dimenticare le sofferenze vissute e per nostra fortuna di non esserci trovati nelle condizioni di diventare da un giorno all’altro da italiani a comunisti jugoslavi sotto la dittatura di Tito, con tutte le nefaste conseguenze.
Maria racconta: “Rimasta orfana di madre deceduta per malattia a sette anni e di padre morto affondato con la nave colpita, ero affidata agli zii e alla fine della guerra venendomi a trovare di fatto jugoslava mentre mi consideravo italiana ed ero orgogliosa di esserlo, decisi di fuggire ed entrare a diciotto anni nel campo profughi alle Risiere di San Sabba, che dopo essere stato un campo di sterminio nazista era divenuto un campo di reclusione degli oppositori del regime comunista di Tito. Regime che, attraverso le foibe e altri sistemi di eliminazione, fece molte vittime italiane, tra cui numerosi cattolici, sacerdoti, professori, avvocati e medici. Il regime comunista di Tito per eliminare qualsiasi opposizione aveva pianificato il genocidio della classe media dirigente. La polizia segreta operava di nascosto arrestando senza motivo le persone e facendole sparire senza far saper nulla ai familiari. Forse parlare di questi argomenti o richiamare l’argomento dei profughi istriani e dalmati suscita un senso di colpa negli italiani per aver taciuto e permesso simile sterminio di fratelli. Ma questo lo venni a sapere dopo quindici anni quando ebbi modo di ritornare a visitare il campo profughi ed avere un lungo colloquio con l’anziano custode di allora testimone dei crimini perpetrati: non nascondo di essermi commossa e di aver pianto.
Nel campo profughi dovevamo stare in quarantena per le malattie e per la nostra identificazione. Fu un’esperienza negativa per la lingua, e per la solitudine. Conobbi un ragazzo che si innamorò di me, mi mise incinta ed ebbi un bambino. Nello stesso anno il giovane padre morì in un incidente stradale. Così mi trovai sola a diciotto anni con un bambino piccolo ad affrontare la vita. Fummo trasferiti al campo profughi di Latina dove si stava molto meglio e trovai occupazione presso il questore come domestica ed il bambino venne ospitato in un asilo. Poi avendo uno zio a Varese mi recai da lui per essere ospitata e trovare un lavoro. Dicevo che ero orgogliosa di essere italiana, ma invece di essere accolta come una sorella in patria venni sempre considerata profuga istriana, “come una cittadina di serie B”, il che mi addolorava tantissimo, perché lo sentivo come una ingiusta discriminazione che si traduceva in lunghe pratiche burocratiche in questura per qualsiasi documento e in atteggiamenti di diffidenza da parte di molte persone, proprio perché capisco ora che essere profughi istriani e dalmati richiama alle coscienze delle persone le gravi ingiustizie subite da migliaia di italiani e crea una sorta di rimorso per aver taciuto anche nel dopoguerra per lungo tempo. Questo però non mi impedì nonostante le tante sofferenze e delusioni vissute di lavorare ed avere una vita soddisfacente, almeno per quanto mi accontentassi. Lavorai come cameriera, commessa, insomma feci i lavori più vari, mio figlio venne ospitato in un Sanatorio a Cantello. Trovai marito che mi voleva molto bene ma per circostanze esterne, venne a mancare la nostra unità. Così ci separammo consensualmente ed io ripresi la mia vita solitaria. Mi risollevavo dai momenti di depressione ascoltando le opere, soprattutto la Traviata, la Bohème e Madame Butterfly avevano il potere terapeutico di farmi passare la depressione. Avevo il teatro nel sangue perché i miei genitori e mio zio si occupavano del teatro dell’opera di Fiume, allora chiamato “Giuseppe Verdi”, come addetti alla sceneggiatura e alle luci per cui assistevo sin da piccola a tutte le manifestazioni teatrali dai balletti alle opere che mi entravano nel cuore per sempre, ed ascoltare le opere per me era ritornare ai più bei ricordi della mia infanzia. Un altro grande aiuto lo ebbi dalla pittura, infatti nel tempo libero amavo disegnare a matita e un giorno conobbi durante i turni di notte, quando lavoravo in fabbrica, un addetto alla manutenzione che disegnava negli intervalli liberi anche lui e mi chiese di fargli vedere le mie opere che rappresentavano ritratti di nudi di donne, tutti molto casti da cui traspariva nella esaltazione della bellezza femminile molto stilizzata e pura, una certa melanconia.
“Soltanto Dio poteva aver creato la donna, un essere meraviglioso, dalla costola di Adamo, sua degna consorte; la donna nella sua splendente bellezza riflette maggiormente l’infinitamente bello di Dio e richiama a Dio anche l’infinito essere materno, come ebbe ad esprimersi Papa Luciani durante il suo breve pontificato”. Purtroppo la bellezza della donna invece di elevare lo spirito a Dio, viene facilmente strumentalizzata al fine del peccato e della lussuria. L’amico che avevo conosciuto nei turni di notte chiese di aderire alla loro associazione di pittura e feci anche delle mostre dove ebbi riconoscimenti di critica e di pubblico. Così iniziai a dipingere quadri ad olio su tela e vinsi anche diversi concorsi come il pagliaccio, di cui allego la foto. Poi andai in pensione, ebbi notizia di mio fratello ammalato di tumore in Svezia: ci eravamo dispersi dal tempo in cui io entrai nel campo profughi ed erano anni che non ci vedevamo. Così sentii il dovere di andare ad assisterlo sino alla morte e per me fu una grande soddisfazione concentrare l’affetto che non avevo potuto dargli nella vita, nell’assisterlo in punto di morte, fu molto contento di riabbracciami e della mia compagnia nella dolorosa malattia. Quando conobbi Cecilia in Ospedale per un’operazione al piede, mi chiese, dato che avevo una piccola auto, se a termine guarigione ero disponibile per accompagnare i bambini a scuola dal momento che lei era nello stesso orario impegnata già in reparto. Così accettai e mi sono affezionata a Cecilia e ai bambini come alla mia famiglia, ed ebbi modo di diventare paziente di suo papà”.
ascolta: Luciano Pavarotti – Una Furtiva Lagrima – Donizetti
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