Come fenomeno transnazionale il populismo è accomunato dai danni che genera: aggrava la crisi, non la cura. Il consenso negativo, per contrapposizione, e l’acclamazione subalterna su cui fa leva non sanno sollecitare la partecipazione politica e ricostruire un tessuto fiduciario. Il populismo «cerca di esprimere le frustrazioni della gente e di indebolire le istituzioni liberali». «Finché i difensori della democrazia liberale non riusciranno ad avere la meglio sui populisti, la democrazia illiberale correrà sempre il rischio di degenerare nella dittatura vera e propria». Destre e sinistre non sono scomparse. Il loro ventaglio, già grande, sta trasformandosi. Le destre prosperano grazie alla loro carica eversiva. Le sinistre stentano dopo aver fallito nel difendere la democrazia e il welfare abbandonando il riformismo e facilitando in modo subalterno il mercato globale. Il nazionalismo non avrà breve durata solo perché un futuro post-nazionale non è a portata di mano. Ma mentre i sovranisti non possono convergere tra loro, i liberaldemocratici sono tenuti quanto meno a pensare, discutere, agire e coordinarsi in modo transnazionale per prefigurare quella governance globale che non c’è.
A quali spazi istituzionali un’ipotetica internazionale democratica si affiderà per agire in modo efficace e praticabile? Come e chi potrà interpretare la necessità di una redistribuzione equitaria su scala globale? Che ne facciamo dello stato-nazione? Quali istituzioni sovranazionali potranno piegare le resistenze dei singoli paesi e facilitare la ripresa in sede locale?
Queste domande ci conducono al rompicapo di Dani Rodrik. Secondo l’economista americano di origine turca autodeterminazione nazionale, democrazia e globalizzazione non possono coesistere. Dobbiamo scegliere quali poli del “trilemma” conciliare e quale sacrificare. Mounk riepiloga così la tesi di Rodrik:«Se vogliamo far progredire la globalizzazione dobbiamo rinunciare o allo stato-nazione o alla democrazia politica. Se vogliamo difendere ed estendere la democrazia, dovremo scegliere fra lo stato-nazione e l’integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo stato-nazione dovremo scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione». Ogni stato vorrà ottenere per sé i benefici ricevuti dagli altri. In teoria l’obiettivo sarà conseguito se tutti rinunceranno a una gestione economica dominata da visioni nazionalistiche e se rispetteranno le regole stabilite da un governo tecnocratico. Ma non tutti gli stati pesano in modo uguale. Di fatto questo auspicio potrà realizzarsi solo con l’assenso delle potenze globali oggi concorrenti: Cina, India, Stati Uniti, Russia e UE. Rodrik suggerisce agli stati sovrani di concordare dei vincoli deboli:la regolazione deve lasciare ampi margini ai singoli governi senza intaccare i benefici economici globali.
Per Mounk vi è un’alternativa politica alla deregolamentazione globale e al protezionismo nazionale. I blocchi regionali come la UE non hanno eclissato il primato politico, culturale e emotivo della nazione, né potranno superarlo in tempi brevi. «Per salvaguardare la democrazia senza rinunciare al potenziale emancipatorio della globalizzazione, dobbiamo capire come aiutare lo stato-nazione a riprendere il controllo del proprio destino». Una volta sottratti al controllo di gruppi ristrettissimi, poco legittimati e spesso autoreferenziali, gli organi di governance globale eserciteranno le loro competenze al di sopra degli stati nazionali senza con ciò ridurne i poteri essenziali, come accade tra i governi centrali e gli organi delle autonomie locali in ambito regionale, dipartimentale, metropolitano, municipale e circoscrizionale. La UE può trasformarsi in un sistema federale:il governo centrale legittimato dal voto delibera senza più veti sui temi fondamentali, e lascia ai livelli istituzionali inferiori le deliberazioni decentrate sulle materie di competenza.
Crouch insiste più di Mounk sulla necessità di rafforzare gli strumenti di governance planetaria. Il riconoscimento a monte di uno stato di necessità porta i contraenti a una cessione, parallela e multilaterale, di sovranità che, essendo sottoscritta da tutti congiuntamente, implica la costrizione reciproca di tutti verso tutti. I sovranisti rifiutano a priori di convalidare questa cessione e la legittimazione che ne deriva. Sinora le forze liberaldemocratiche, troppo vincolate alla sfera locale, esitano nel riconoscere lo stato di necessità. «Non è possibile immaginare un insieme globale di istituzioni democratiche. Possiamo tuttavia chiedere un mondo in cui i politici nazionali ammettano che alcuni problemi sono al di fuori della loro portata, che per affrontarli è necessario cooperare con gli altri paesi all’interno delle agenzie internazionali e che quindi le politiche dei singoli governi all’interno di queste agenzie siano discusse con fervore nel dibattito nazionale».
Gli organismi sovranazionali come FMI, WTO, OIL, OCSE, BMvanno posti in condizione di verificare e valutare gli obiettivi degli interventi statali in conformità alle finalità generali condivise. Questi organismi dovrebbero stabilire delle bande rigide di obiettivi massimi e minimi per tutti. Il successivo negoziato con gli stati nazionali fisserà il grado di flessibilità entro questi margini di oscillazione. I populisti hanno trasformato la “tecnocrazia” in una parola oscena. Di contro per Crouch va ottimizzato «il compromesso tra competenze tecniche e responsabilità nei confronti della volontà popolare». È corretto «dare più potere alle assemblee legislative per fissare le norme necessarie e ritenere responsabili gli enti burocratici che le applicano», ma «la stesura e l’implementazione di queste normative richiedono davvero notevoli competenze tecniche». La sfida si complica più ci allontaniamo dalle competenze nazionali e ci avviciniamo alla necessaria cooperazione internazionale. Ad esempio, in sede globale la tecnocrazia può servire a «regolamentare le banche e applicare standard di sicurezza per i consumatori».
Per Crouch la UE resta una conquista irrinunciabile. La UE ha davanti a sé due modi opposti per rafforzare i processi democratici: o accettare che la globalizzazione oltrepassi la portata delle istituzioni democratiche e mantenere margini di decisione in ambito comunitario o locale; o lasciare l’economia globale e in nome del protezionismo sovranista difendere le frontiere nazionali dal movimento generale delle merci, dei capitali e delle persone. Solo la prima alternativa è percorribile utilmente. La rete delle interconnessioni dell’attuale sistema capitalistico trascende le basi nazionali. Alle esigue minoranze che governano questa rete e alle minoranze più estese incluse nella cascata dei loro benefici, si oppone un insieme disarticolato, frammentato, differenziato e disorganizzato di lavoratori messi gli uni contro gli altri «dagli stessi processi che consentono ai capitalisti di riunire i loro interessi». Per Crouch il nazionalismo non può invertire i processi di globalizzazione. Anzi, danneggerebbe drammaticamente soprattutto le economie dei paesi avanzati. Lo stato interventista non riattiverà il welfarestate e le politiche keynesiane,che escludevano politiche autarchiche, che non erano destinate a governi con pesanti debiti cronici ma a paesi con eccedenze, e che non volevano dispensare sussidi. La promessa sovranista di far rientrare le attività manifatturiere delocalizzate, magari mediante la guerra dei dazi, è impraticabile. Si tratta invece di sottrarre ai paesi emergenti i vantaggi competitivi di condizioni di lavoro vergognose e di un uso predatorio delle risorse ambientali. A loro volta i paesi sviluppati devono ancorare la cittadinanza non alla facoltà di consumare ma di produrre in modi innovativi. In particolare, «le regole legate al raggiungimento di chiari standard lavorativi e ambientali non hanno un carattere protezionistico dato che gli Stati possono entrare nel regime di libero scambio non appena raggiungono standard monitorati a livello internazionale, senza che le singole nazioni siano in grado di limitare le loro importazioni su basi protezionistiche».
Il Parlamento europeo deve assumere il potere legislativo ed esprimere un governo federale con competenze politiche più estese e strumenti esecutivi più efficaci. Questa trasformazione farebbe dell’Europa un sistema democratico legittimato, libero dalle interdizioni dei governi nazionali; ridimensionerebbe i poteri dei burocrati; potrebbe adottare politiche comuni per ridurre la povertà, estendere le tutele del lavoro dipendente, regolare i flussi migratori nel rispetto dei diritti e dei trattati internazionali e promuovere la formazione, la ricerca, l’innovazione e gli studi di eccellenza su scala continentale. La UE è anche il più grande e potente blocco commerciale del mondo. Il passaggio da Unione a Federazione le darebbe la forza per imporre agli stati terzi i propri standard interni in materia ambientale, di qualità dei prodotti, di tutela dei diritti, di controllo fiscale e via elencando. In questo modo gli stati membri della Federazione eleverebbero la loro concorrenzialità e contribuirebbero a sottoporre l’economia globale a quelle regolazioni giuridiche che i liberisti equiparano a bestemmie.
fine quindicesima puntata – Le prime quattordici sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19del 30.03.19 del 06/04/19 del 13.04.19 del 20.04.19, del 04.05.19, dell’11.05.19, del 18.05.19, del 25.05.19, dell’ 1.06.19, del 08.06.19 e del 15.06.19).
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