Uno degli esperimenti che più convincono sul piano della reintegrazione di un probante sistema socio-economico, in questi momenti di crisi, è certo quello dell’agricoltura sociale. La Legge 8 agosto 2015 n. 141 “Disposizioni in materia di agricoltura sociale” all’art.1 recita: è quell’aspetto della multifunzionalità delle imprese agricole finalizzato allo sviluppo di interventi e di servizi sociali, sociosanitari, educativi e di inserimento sociolavorativo, inteso a facilitare l’accesso adeguato e uniforme alle prestazioni essenziali da garantire alle persone, alle famiglie e alle comunità locali in tutto il territorio nazionale e in particolare nelle zone rurali e svantaggiate”.
In termini meno involuti si tratta di una pratica spontanea capace di generare nuovi modelli di welfare mediante l’agricoltura. I primi progetti in termini di agricoltura sociale sono nati dall’attività di ricerca dell’Università di Pisa a partire dalla fine degli anni Novanta. Se ne può parlare in tutti i casi in cui alla funzione produttiva propria dell’agricoltura si uniscono quella relazionale e quella riabilitativa o di cura.
Il secondo versante caratterizza i servizi sanitari e socioassistenziali, a cui si riconducono le comunità di recupero. Il settore primario è quello più strettamente connesso alle radici umane in un periodo di crisi di valori. Purtroppo l’agricoltura sociale opera in un ambiente amministrativo, procedurale e normativo al momento tutt’altro che attrezzato per comprenderla pienamente e quindi regolamentarla.
Le principali barriere allo sviluppo di questa attività consistono proprio nella burocrazia e nelle incomprensioni amministrative. L’elemento chiave per lo sviluppo è il consumatore fruitore, con una spinta dal basso e nella riconnessione tra pubblico e privato.
L’agricoltura sociale non è prerogativa italiana. In ambito europeo si danno circa seimila esperienze. Da noi comunque il modello è ancora difficile da inquadrare. Negli elenchi delle 14 regioni, in cui si sono predisposte apposite normative, si registrano soltanto 93 imprese. In alcune prevale la dimensione produttiva, in altre quella sociale, in altre ancora la combinazione delle due tipologie.
Per la grande maggioranza dei casi si adottano pratiche agronomiche sostenibili a baso impatto ambientale (limitato impiego di antiparassitari e concimi, diffusione del metodo biologico, elevata diversificazione delle produzioni e delle attività aziendali, ordinamenti produttivi ad alta intensità di lavoro con ricorso a lavori manuali e ampie possibilità di inserimento). Si propongono le attività più congeniali al singolo nell’ottica della valorizzazione delle abilità personali. Si ha cura dell’ambiente di lavoro in termini di sicurezza, fruibilità, pulizia, né trascurato è l’aspetto estetico. Si ricorre spesso a canali commerciali improntati alla filiera corta (punti di vendita aziendali, gruppi d’acquisto solidali ecc.). Onde l’affermazione di un’etica della produzione agricola fondata sul rispetto dell’ambiente e della salute, sulla fiducia tra produttori e consumatori, sulla solidarietà tra componenti delle comunità e ospiti.
La coproduzione di valori privati e pubblici implica infine una specie di co-disegno tra i soggetti coinvolti. È un’agricoltura che offre servizi alle persone e alla collettività non tralasciando i valori, anzi ponendoli al centro delle relazioni in un fecondo dialogo tra città e campagna, superando i limiti della settorialità e potenziando ogni genere di interdisciplinarità.
Certo l’agricoltura sociale non va perseguita riducendola alla funzione di beneficiare di fondi, sia pubblici che privati, da concepire come fine e non come strumento, con spensierato senso di irresponsabilità. Tramonterebbe ogni possibilità di innovazione, di salutare cambiamento.
L’impresa sociale agricola deve essere un movimento capace di affrontare nuove vie per rispondere alle esigenze del welfare territoriale, deve prendere decisioni coraggiose nel discutere stili consolidati, ma superati e non più efficaci, affermarsi sul mercato in autonomia, sfruttare risorse e saperi già esistenti, trasformando le buone pratiche in un sistema diffuso, mentre un ruolo di accompagnamento attiene sempre al mondo della ricerca.
Si tratta di un sistema dinamico con grande potenzialità di sviluppo a favore di tutta la collettività. Si protegge l’ambiente, si conserva la biodiversità, si promuove una gestione sostenibile delle risorse, si garantisce la sopravvivenza socioeconomica delle aree rurali, ne è favorita la sicurezza alimentare.
You must be logged in to post a comment Login