Uno dei dibattiti più accesi di questi giorni è centrato e si sviluppa sulle dichiarazioni di improvvide testimonianze, sulla necessità di attesa delle sentenze definitive di colpevolezza, sull’opportunità delle dimissioni tempestive da una carica pubblica.
Fino a quando la questione morale rimarrà una scusante, un alibi, per affermare la superiorità della propria parte politica, qualsiasi riforma è destinata a fallire. Prima fra tutte la notevole problematica che avvolge il mondo del lavoro.
Se le nostre imprese non crescono come potrebbero, non è per l’insipienza degli imprenditori, per la bassa produttività, per la tardiva innovazione, per le opportunità non sfruttate e offerte dalla tecnologia, per le pastoie burocratiche, per la lentezza della magistratura, ma per l’amoralità economica diffusa nel nostro Paese.
Nei Paesi in cui c’è maggior fiducia nell’onestà dei propri concittadini le imprese crescono, sono più grandi. Noi continuiamo col piccolo è bello.
Un altro aspetto coinvolge direttamente i proprietari d’impresa i quali delegano i loro poteri solo quando si fidano del dipendente/collaboratore perché tanto più si delega e tanto più si accresce il rischio che un dipendente infedele rubi o si arricchisca alle loro spalle. Per questo non si espandono, perché non vogliono cedere il controllo.
La mancanza di fiducia diffusa impedisce anche i meccanismi di selezione meritocratica. Se temono che il manager sia infedele, scelgono il nipote, il parente, l’amico anche quando costoro sono meno competenti.
In Italia la fedeltà fa premio sulla competenza e perché non ci si può fidare? Perché prevale la cultura della furbizia invece che quella dell’onestà. Nel nostro Paese il conflitto d’interessi è così diffuso da non essere neppure percepito come un problema. Se tra i valori scambiamo la furbizia con l’onestà, forse stiamo toccando il fondo.
“Quel che deve interessare veramente è la sorte del Paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude. Oggi il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. Penso non si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili”.
E ancora: “Il consumismo esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati, di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi extra comunitari e della loro indipendenza, non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la ‘civiltà dei consumi’, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa…
“E che dire dell’austerità. La necessità di combattere gli sprechi, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani).
“Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta alla recessione, cioè alla disoccupazione. Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dire però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al Paese e si comincia con il chiederli – come al solito – ai lavoratori, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi…
“ I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune..
“ Allora noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Inoltre, pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadina e di ogni cittadino alla cosa pubblica debba essere assicurata…
“ E infine noi riteniamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà non funzionino più e quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale situazione economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. Ceti medi e borghesia produttiva, sono strati importanti del Paese ed i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Ma ad una condizione: quella di fare una politica per l’attuazione di un programma che davvero sia di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente”.
La mia opinione è che stiamo ancora aspettando decisioni politiche che siano in sintonia con i valori tradizionali del nostro Paese almeno da quando, dopo la guerra, Alcide De Gasperi ci fece capire come ragiona e soprattutto come lavora uno Statista. Un altro ostacolo da superare è: l’arroganza del potere. Ferma restando la definizione del fu senatore Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”, resto dell’idea che una vera democrazia non sarà tale fino a quando il vocabolo “potere” sarà utilizzato prevalentemente come sostantivo.
Invece è necessario cambiarne il concetto e considerare il “potere” come verbo, di seconda coniugazione. Ebbene a proposito delle righe sopra indicate in corsivo, “posso” (dal verbo potere) sostenere, democraticamente, che siano parole di buon senso, aderenti alla realtà che stiamo vivendo, indicative di un percorso da seguire.
Sono alcune frasi tratte da: “I partiti sono diventati macchina di potere”. Intervista a Enrico Berlinguer di Eugenio Scalfari: 1981.
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