Il caso Kaufmann, esordio narrativo di Giovanni Grasso, ripropone, in forma romanzata, la storia di Lehman Katzenberger e Irene Seiler. Una storia, questa, già evocata in un film del 1961, dedicato al processo di Norimberga e che in Italia era stato distribuito con il titolo Vincitori e vinti.
Nel romanzo (come pure nel film di Stanley Kramer) i nomi dei protagonisti sono stati leggermente modificati. Lehman Kaufmann, detto Leo, è un ricco commerciante di calzature di sessantadue anni, rimasto precocemente vedovo e senza figli, presidente della Comunità ebraica di Norimberga; Irene Seiler, ventiduenne, è una “ariana”, trasferitasi a Norimberga per studiare fotografia. La loro vicenda prende le mosse alla vigilia delle elezioni del 12 novembre del 1933. A quella data, Hitler era già cancelliere dal 30 gennaio; nel mese di marzo era stato approvato il cosiddetto Decreto dei pieni poteri, che aveva trasformato di fatto il cancelliere in dittatore; i partiti di opposizione erano stati aboliti e i tedeschi erano chiamati ad esprimersi in merito ad un’unica lista proposta per il Parlamento, secondo una modalità “plebiscitaria”, già sperimentata nell’Italia di Mussolini.
Tra il 1933 e il 1934, in Germania furono emanate le prime leggi che miravano ad escludere gli ebrei dalla vita pubblica. In seguito, nel 1935, proprio a Norimberga, durante il raduno del partito nazionalsocialista, furono annunciate quelle che di lì a poco sarebbero poi state ricordate come le «Leggi di Norimberga», che privarono gli ebrei della cittadinanza e introdussero una serie di proibizioni, volte a preservare l’integrità del «sangue» tedesco: agli ebrei, cioè, fu fatto divieto di unirsi in matrimonio con gli “ariani”, ma anche solo di avere rapporti sessuali con persone «di sangue tedesco o di sangue affine a quello tedesco».
Il caso Kaufmann, edito da Rizzoli, ruota proprio intorno a questa ipotesi di reato: sulla base di diffuse maldicenze e calunnie, il vecchio commerciante ebreo verrà arrestato, nel novembre del 1940, con l’accusa di aver “disonorato” la razza tedesca, per aver intrattenuto relazioni più che affettive con la giovane Irene.
Se il succo della storia sta tutto qui, in realtà il romanzo insegue e ricostruisce il clima che determinò quelle che per noi, oggi, potrebbero sembrare delle assurdità e che in realtà rappresentarono la premessa a quella soluzione finale, che si scatenerà a partire dal gennaio del 1942. Ho usato volutamente l’espressione «assurdità», perché quando ci imbattiamo in storie come quelle qui raccontate, tutto ci sembra illogico e irrazionale. E del resto, anche in quegli anni, il montare osceno di una campagna razzista, prontamente tradotta in dispositivi di legge, per l’osservanza dei quali concorse tutta la macchina amministrativa, burocratica, poliziesca, economica, giudiziaria dello Stato, sembrò ugualmente privo di logicità ai testimoni del tempo. In Italia, il giovanissimo Vittorio Foa aveva intuito ciò che sarebbe scaturito da una iniziale campagna di stampa antiebraica, peraltro non nuova nell’Europa cristiana. Dal carcere romano di Regina Coeli, dove era stato rinchiuso per attività antifascista, Foa scriveva ai genitori il 30 aprile del 1937: «È bene essere preparati a qualche amabile novità […]. Non cose gravi: limitazioni o esclusioni dagli impieghi pubblici, numerusclausus nelle professioni e nella scuola superiore, qualche grido, qualche scritta muraria, qualche vetro rotto ai negozi».E qualche mese dopo, in luglio, sempre dal carcere romano, cercò di confortare i propri familiari, invitandoli a non rattristarsi troppo «per l’offensiva antisemita in corso», pur rendendosi conto che «sul terreno logico tutto ciò è assurdo, contraddittorio, quasi ridicolo per la sua inconsistenza» e rammaricandosi perché «gli uomini bisognosi di chiarezza logica si angustieranno di non poter replicare e confutare».
Uno dei fili conduttori che potremmo seguire nella lettura del romanzo di Giovanni Grasso potrebbe essere proprio questo: come è stato possibile che tutto sia accaduto nella indifferenza e nella complicità dei più? Come è stato possibile, si legge a p. 115, che «in quella torbida stagione, le vittime diventa[ro]no carnefici, gli innocenti colpevoli, e i carnefici ven[nero] accolti da liberatori»?
Perché, per citare il titolo di un’opera di Raul Hilberg, storico della Shoah dal quale anche Grasso è partito nella sua indagine, leggendo della persecuzione e della distruzione degli ebrei di Europa, noi siamo portati a puntare la nostra attenzione sul ruolo dei carnefici e delle vittime, dimenticandoci spesso della massa enorme di «spettatori», la cui indifferenza e il cui silenzio consentirono di fatto che le procedure discriminatorie e poi omicide potessero compiersi senza particolare scandalo.
Ciò che Leo Kaufmann non riesce a comprendere, anche dopo l’introduzione delle Leggi di Norimberga, «quello che gli faceva più male», era «l’assoluta, generale indifferenza del popolo tedesco» (p. 105).
A questo proposito è interessante il richiamo che l’Autore del romanzo ripetutamente fa ad un periodico molto noto nella Germania dell’epoca, «DerStürmer», pubblicato proprio a Norimberga dall’editore Julius Streicher dal 1923 al 1945. Anche gli italiani in qualche modo ebbero l’occasione di conoscerne lo stile, perché molte illustrazioni furono poi riproposte dalla «Difesa della razza», rivista pubblicata a partire dal 5 agosto 1938. «DerStürmer» conduceva la sua campagna antisemita utilizzando un linguaggio che oggi definiremmo scandalistico e che contribuì a consolidare stereotipi e pregiudizi che accompagnavano gli ebrei sin dal Medioevo.
Il linguaggio dell’odio, del resto, si insinua, ieri come oggi, come un veleno che viene assunto costantemente e in dosi sempre maggiori, sino a quando non ne risultiamo tutti immuni. Soprattutto quando a farne uso sono figure pubbliche di autorità. Lo spiegò bene lo storico tedesco Theodor Mommsen, che nel 1879, commentando i contenuti e lo stile di un’opera grondante odio contro gli ebrei firmata da un suo altrettanto celebre collega, Heinrich von Treitschke, rimproverò a quest’ultimo di aver tolto all’antisemitismo «le mutande del pudore» e di averlo reso «rispettabile».
C’è un’unica immagine nel romanzo di Grasso. È un’immagine tratta da un volumetto illustrato per bambini, scritto da Elvira Bauer e pubblicato nel 1936 a Norimberga proprio da Julius Streicher. Ne furono stampate circa 100mila copie. Il titolo invitava a diffidare degli ebrei, scaltri come volpi, e dei loro falsi giuramenti. Così come in un altro volumetto, edito dallo stesso Streicher due anni dopo, l’ebreo era proposto ai giovanissimi lettori come un fungo velenoso. Si trattò, in Germania come in Italia, di educare una intera generazione all’odio.
Ugualmente utile alla ricostruzione del clima, di quel comune sentire che rappresentò il terreno di coltura per la successiva distruzione di massa, la riflessione che Grasso mette in bocca al magistrato Oskar Rothenberger (alle pp. 286-287). Leo Kaufmann, proprio sulla base delle stesse leggi antiebraiche, avrebbe dovuto essere rimesso in libertà per insufficienza di prove. Sarà Rothenberger a spiegare ad un suo giovane collega che nello Stato hitleriano si è affermata una «concezione dinamica del diritto»: il potenziale criminale, prima di essere tale, è un «traditore della Patria, della Rivoluzione, del suo popolo». Il diritto deve adattarsi agli obiettivi del Capo, per la preservazione dell’integrità della (sua) idea di società e di Stato.
Kaufmann fu portato in giudizio davanti al Tribunale speciale di Norimberga nel marzo del 1941. Nel giro di ventiquattr’ore fu emessa la sentenza.
Il romanzo si legge bene. La scrittura è fluida e scorrevole. Alla fine, resta l’amarezza per una storia probabilmente simile a tante altre, apparentemente incomprensibile, eppure terribilmente vera.
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