“O la borsa o la vita”: imposizione minacciosa che veniva rivolta perentoriamente da figuri sinistri nell’aspetto e nella voce ai poveri viaggiatori che si avventuravano nelle strade o su sentieri impervi per raggiungere mete importanti ma lontane. E questo momento terribile poteva essere vissuto anche in certe vie di borghi malfamati. L’espressione ricordata metteva a confronto due cose importanti ma dal valore ben diverso, per cui la malcapitata vittima cedeva volentieri e velocemente la borsa. E su questa scelta l’assalitore contava moltissimo.
Importanza dei soldi, importanza del vivere. Il protagonista aggressivo aveva barba incolta,cappellaccio pesantemente infeltrito, giubbotto in pelle senza maniche,camicia di flanella a quadri vistosi, sporchetta e infine pantaloni di velluto rappezzati e stivalacci resistenti ad ogni sforzo di marcia: l’icona del brigante.
Ai nostri giorni il brigante non ha più quest’aspetto: completo molto scuro, grigio antracite, blu scuro o addirittura quasi nero. Camicia bianca e cravatta rigorosamente intonata all’abito. Scarpe fini e ben lucide. Non assalta più sui sentieri scoscesi o per stradacce, ma da dietro scrivanie e freddamente si preoccupa di intercettare soldi, passando deliberatamente sopra la vita degli altri. Non c’è la scelta tra vita ed il denaro: qui ciò che conta è la borsa, rappresentata da gelide cifre su materiale cartaceo o sugli schermi di computer. Il brigante dei nostri giorni viene glorificato da stipendi favolosi. Più aggredisce più ha successo. Non gliene importa della qualità dell’esistere degli altri, non gliene importa molto della vita: la sua attenzione è riversata sui bilanci, anzi sul “suo” bilancio che deve essere sempre al “top”! Quelli collaterali, talvolta strettamente collegati tra loro e col suo, non contano. Così succede nella sanità. Gli assessorati agiscono spietatamente sui loro bilanci, tra l’altro spingendo i pazienti verso la medicina privata: se tu paziente paghi non spendo io, ma la società globalmente spende molto di più rispetto all’utilizzo della medicina pubblica perché la privata, obbligata ad essere strettamente legata al profitto,è forzatamente più cara.
Nella realtà la sanità è molto costosa e svolge un ruolo da protagonista nel debito pubblico: la farmaceutica, la strumentazione, il personale (calcolato con logaritmi alquanto discutibili), l’edilizia sanitaria, la ricerca continua sono fra i tanti fattori che causano i grandi costi, ma sono elementi importanti per l’assistenza. Da aggiungere l’elefantiasi delle strutture burocratiche che aumentano la spesa.
Nei due modi di gestire la sanità, pubblica e privata, spesso abbiamo grandi sprechi. A queste due forme va aggiunta la spesa della assistenza domiciliare sostenuta dalle famiglie con il sussidio delle “badanti”. Balza all’occhio una realtà drammatica: forse una medicina pubblica ben gestita farebbe risparmiare. Da sottolineare poi che nella assistenza domiciliare il quoziente “affetto” è assolutamente incalcolabile.
Recenti ricerche, oltre ad evidenziare il valore grandissimo del welfare sanitario, fiore all’occhiello della nostra nazione, hanno messo in luce la grande responsabilità dei “briganti”, pur eleganti e distinti, ma anche evidenziata la necessità di veri grandi manager, capaci di far funzionare bene le strutture rispettando la qualità della vita dei pazienti e dei dipendenti. Il vero manager non crea vittime, ma solo migliora tutti i servizi senza sperperi, ed è profondamente umano. Questa figura deve sostituire l’attuale politico “briganteggiante”perché la nostra medicina si sta avviando verso un vicolo senza uscita.
Il problema sociale della sanità è strettamente legato al quadro della sofferenza a cui nel passato si è cercato di dare una giustificazione legandola al concetto di espiazione; ma è un pensiero che sta mutando perché stride con il grande sogno della felicità legato in modo indissolubile al nostro esistere. Sarebbe come dire che siamo stati creati per soffrire, destinati al dolore e non al bene, alla gioia. Purtroppo molti nostri comportamenti aumentano il dolore nella nostra realtà; siamo più inclini a creare armi che elementi di benessere, più inclini a far soffrire che ad aiutare a vivere meglio.
Al contrario la vera ricerca scientifica lavora per alleviare la sofferenza. È un cammino difficile, pieno di ostacoli e difficoltà, ma dobbiamo perseguire questo piuttosto che creare sofferenza ingiustificata.
Dobbiamo cercare di realizzare atti che alleviano il soffrire in tutti i modi in cui si manifesta, giungendo fino a aiutare a morire con la minor sofferenza possibile, nel modo più dolce possibile. Una grande prova del welfare dei nostri giorni è in questo lavorio, in questi studi, in queste organizzazioni. Non negare stupidamente la morte, non fasciarci gli occhi per non vederla, ma vivere la vita nella sua totalità e realtà nel modo più intelligente possibile.
Alleviare la sofferenza, magari riuscire ad annullarla, almeno quella fisica, vuol dire donare la vera vita, dare un significato positivo al vivere, rendere vero il vivere bene. Il cammino scientifico va in questa direzione. Importante non inseguire la borsa, ma cercare la vita. È quello che l’umanità insegue da sempre e sono convinto che lo saprà raggiungere.
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