Gigi de Fabiani è mancato domenica 9 giugno a 91 anni. Era un maestro di giornalismo vecchia maniera, di quelli che ti stracciavano l’articolo in faccia se non andava bene e lo facevano riscrivere a un redattore esperto. Già, perché nei primi anni Settanta gli articoli si battevano ancora sui fogli A4 con la macchina per scrivere. E tu, mortificato, giuravi a te stesso che avresti fatto il possibile perché non si ripetesse. Erano tempi difficili allora a Milano, segnati dagli scioperi, dai cortei di Lotta Continua e dalle vertenze sindacali nelle fabbriche (in ogni redazione c’era un cronista specializzato), le radio sintonizzate sulle frequenze di polizia e carabinieri per sapere in tempo reale di ciò che accadeva in città, le prime avvisaglie del terrorismo, i primi sequestri di persona delle Br.
Come quello dell’ingegnere Michele Mincuzzi dell’Alfa Romeo di Arese, rapito la sera del 28 giugno 1973 e rilasciato dopo tre ore di “processo proletario”. Nella folla di cronisti accorsi sotto la casa del dirigente tra i lampeggianti delle “pantere” c’erano due inviati di Avvenire che, dal più vicino telefono, riferivano a De Fabiani. Il nominativo di Mincuzzi era stato rinvenuto dai brigatisti tra le schede sequestrate all’Ucid, l’Unione cristiana imprenditori e dirigenti, durante un’irruzione avvenuta mesi prima. L’ostaggio fu incappucciato, portato in aperta campagna, interrogato e rilasciato con un cartello al collo: “Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato”.
Nella Cronaca di Avvenire, nella vecchia sede in piazza Duca d’Aosta vicino alla Stazione Centrale, si viveva l’ansia della chiusura anticipata rispetto agli altri quotidiani milanesi, il Corriere, il Giorno, l’Unità. Dopo una certa ora di sera non si faceva più in tempo a mettere le notizie in pagina. E l’ultimo fattaccio bisognava sbrigarsi a scriverlo e passarlo in tipografia con la posta pneumatica. In casi eccezionali si ritardava la chiusura, come la sera del sequestro Mincuzzi. Con il cuore in gola osservavi il volto corrucciato del “maestro” che leggeva il pezzo e un sorriso ti diceva se avevi superato l’esame. La notte era lunga. Si facevano le ore piccole in tipografia con l’inebriante odore dell’inchiostro nelle narici, il fragore delle linotype, il flano da correggere, i tipografi in camice nero che maneggiavano velocemente le colonne di piombo. Fino alla partenza dei furgoni con i pacchi di giornali a bordo.
Un altro mondo rispetto a oggi. De Fabiani raccomandava ai giovani: “Leggi La Notte se vuoi imparare a scrivere la cronaca nera” perché il giornale del pomeriggio diretto da Nino Nutrizio faceva scuola nel raccontare il crimine. Una foto appesa al muro raffigurava la mangiatoia di una stalla e le mucche con il muso affondato nel fieno. L’irridente didascalia spiegava: “Il primo stipendio dei praticanti”. L’Avvenire era un giornale giovane. Il primo numero era uscito il 4 dicembre 1968 grazie alla fusione di due quotidiani cattolici, l’Italia di Milano e l’Avvenire d’Italia di Bologna. Un’unione fortemente sollecitata da Paolo VI. Voleva essere lo specchio del variegato mondo cattolico e interpretarne i nuovi fermenti. La proprietà divisa tra la Conferenza episcopale italiana e la diocesi di Milano.
Trattava i temi della vita, della famiglia, dell’educazione. E dal quotidiano L’Italia, diretto da Giuseppe Lazzati, proveniva De Fabiani che divenne subito una colonna di Avvenire, capocronista, poi caporedattore e vicedirettore. Fedele alla causa, refrattario alle proposte di passare ad altre testate nonostante la limitatezza dei mezzi a disposizione del giornale. Ogni anno il mondo cattolico dedicava un giorno a raccogliere nuovi abbonamenti. Il responsabile della “buona stampa” era Carlo Demetrio Faroldi, un collaboratore in contatto con la generosa Fondazione Cassoni. Acquistava copie e le distribuiva gratuitamente negli ospedali. “Ai tempi di Faroldi, quando ancora portavo i calzoni alla zuava – ricordava De Fabiani – anch’io ero un fervido propagandista e portavo il giornale da vendere in tutti i dopolavoro della parrocchia, dalla mattina alla sera”.
Sotto la sua guida si sono formate generazioni di giornalisti. Era impegnato nella professione, nella vita civile, nel tessuto sociale, nel sindacato, negli organi professionali della categoria. In periodi diversi ricoprì ruoli dirigenziali nel quotidiano L’Ordine di Como e nel settimanale Il Sabato. Restando sempre attento all’impegno nelle organizzazioni di categoria, dall’Associazione Lombarda dei giornalisti alla Federazione nazionale della Stampa, dall’Unione della stampa cattolica all’Ordine regionale e nazionale. Per qualche anno assunse la direzione del neonato Istituto per la Formazione al Giornalismo intitolato a Carlo De Martino. La scuola dove, dopo gli anni di Avvenire, continuò a far crescere nuove leve di cronisti.
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