Si farà ancora uno sport che prevede l’uso del pallone, ma non si giocheranno più partite di calcio al “Franco Ossola”. Il motivo? Sembra evaporato il vecchio Varese FC, una storia la sua lunga decenni e ricca di pagine da ricordare per il comportamento della squadra biancorossa negli anni di attività nella élite dei professionisti.
Oggi la società vaga nella palude delle retrocessioni dovute all’assenza di autentici mecenati come Borghi e Orrigoni e alla presenza e alla rotazione anche di uomini di buona volontà, ma poco informati sulle gestione e i rischi legati a un’avventura nel mondo del calcio. Dove c’era e forse c’è ancora una approssimata valutazione dell’evolversi di regole, tradizioni e anche controlli e leggi sui flussi finanziari- rivoli o fiumi – che scorrono in ogni club.
Addio al calcio dunque, ma non a uno stadio che ci ricorda Franco Ossola morto a Superga con il leggendario Torino e indirettamente anche la sua famiglia che ha dato memoria e gloria indimenticabili a Varese grazie ai due fratelli di Franco, Cicci (Luigi), campione di calcio che portò il Varese alla serie A, e Aldo il cervello della Ignis indimenticabile pluricampionissima della pallacanestro italiana.
Sperare in un ritorno del calcio al “Franco Ossola” è un desiderio che può solo attenuare l’inevitabile malinconia. Splendido è infatti oggi il ricordo di imprese sportive fatte al tempo della fiducia collettiva verso uomini che erano espressione anche di una realtà economica che essi avevano contribuito a creare e destinata poi a essere riferimento anche internazionale.
Le vicende del calcio mondiale, non solo italiano, hanno raccontato e raccontano ancora oggi delle apparizioni sulle varie scene nazionali di piccole società alle quali può riuscire di primeggiare e a volte di vincere i massimi campionati, ma a calcare con continuità le grandi scene sono e saranno sempre le formazioni che hanno alle spalle grandi masse di tifosi e potenze finanziarie. Il ricordo delle incursioni esaltanti del piccolo Varese nel supercalcio deve dunque avere sempre e solo risvolti positivi.
Non poca preoccupazione è doverosa oggi davanti al difficile momento dell’Italia che è anche riflesso di una notevole crisi che ha investito le comunità internazionali. Anni difficili eppure il mondo della pallacanestro nazionale ha reagito, ha lottato e lotta perché le varie comunità interessate a questa attività sportiva continuino a vivere, a essere riferimento per giovanissimi e giovani che amano praticarla, perché le varie squadre non cessino di essere forte e insostituibile riferimento anche per le generazioni odierne e quelle che verranno.
Varese è stata e sempre sarà capitale del basket proprio per questa sua vitalità, per lo spirito di corpo che anima imprenditori, professionisti, tifosi e giocatori. Ancora oggi poco o nulla è mutato rispetto ai giorni in cui eravamo esempio per gli altri. Certamente non ci sono più molte disponibilità, ma quanta saggezza nella gestione della società, quanta intelligenza nella ricerca di amici e collaboratori in grado di dare prospettive, di richiamare ancora e sempre migliaia di sportivi al palasport. Un luogo di culto per amare Varese.
Mentre si seppelliva il passato del calcio, si difendeva
tenacemente presente e futuro del basket. Un fatto sociale e culturale rilevantissimo, direi anche politico se si guarda a una città che per troppi anni è stata solo il “magazzino prelievi” di voti di una classe politica che si proclamava innovativa e invece tutta intera o quasi nulla dava alla comunità. Oggi assistiamo a eventi che per provocare una reazione positiva nella popolazione devono riagganciare giorni felici. Come quelli che dedicammo a Renato Guttuso e altri che ci videro esplodere di gioia per la conquista del decimo scudetto di basket.
Nella storia della pallacanestro varesina ci sono stati personaggi indimenticabili e li abbiamo tutti e sempre nel cuore. Oggi, nel tempo in cui si vuole giustamente ricordare l’evento del decimo titolo, la “stella” che apre la porta della vera gloria sportiva italiana, a proposito di presidenti di rara capacità gestionale, mi piace ricordare un nonno e un nipote entrambi a distanza di 35 anni “scudettati”: i due Edoardo che di cognome fanno Bulgheroni. E non dimentico il terzo della famiglia, Toto, popolarissimo, che dopo essere stato giocatore intelligentissimo, da dirigente salvò la squadra riportandola subito in linea di tranquillo galleggiamento prima dello “scudetto della stella”. Tre varesini che ci hanno sempre ricordato che anche essere dirigenti è uno sport difficile. Ma si può andare lontano se si è gentiluomini.
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