In tempi padroneggiati da astio, livore e risentimento, vale ricordare un esempio di segno opposto, improntato all’armonioso, al buono, al caritatevole. Così, per la semplice necessità d’una boccata d’aria pura. E per confermare, in epoca di rimozione/sprezzo della tarda età, che si può essere vecchi e giovani insieme. Giovani di spirito, giovani di cuore. E trasferire agli altri ciò che conta nell’esistere: conforto, solidarietà, speranza. Gli altri, che ne hanno un gran bisogno, sono riconoscenti. E talvolta lo dimostrano, come succede a Comabbio, paese di lago del nostro Varesotto, dove il 14 giugno ha compiuto 106 anni un uomo al quale tutti, ma proprio tutti, vogliono bene. Si chiama Giovanni Leva, e la sua lunga vita è stata/è/continuerà ad essere così esemplare da venire indicata come benedetta.
Una parola tosta, benedetta. Da usare con parsimoniosa prudenza. E tuttavia adatta, opportuna, realistica nella circostanza. Vita benedetta perché adorna di regali distribuiti al prossimo, e guidata da libertà, misericordia, giustizia. La libertà nell’essere sé stessi negandosi a ogni tentazione di non esserlo, la misericordia dispensata (e insegnata) ogni giorno, la giustizia nel partecipare i talenti ricevuti in dote.
Giovanni Leva ha una storia speciale, che non si sbaglia a definire straordinaria: privilegiato, come narra la voce del popolarismo cristiano, dai doni del Signore, non li ha gelosamente custoditi. Li ha generosamente alienati. Cioè messi con disinteresse e passione nella disponibilità collettiva, omaggiando il principio che l’avere non significa nulla se non abbinato al dare.
Questa prodigalità sociale delle virtù naturali -o condivisione di carismi, secondo la credenza religiosa- riveste un aspetto di fede e un aspetto non di fede. L’aspetto di fede sta nello spartire il significato e i contenuti d’una missione, perché tale è da interpretarsi la testimonianza del messaggio di Gesù. L’aspetto non di fede sta nell’impartire, senza volerlo, una continua lezione laica di comprensione, pietà, umanità.
Ci manca spesso, quest’umanità. Ce ne accorgiamo quando arriva il momento difficile, restiamo senza sostegno, sull’orizzonte cala il buio, non s’intravede chiarore capace d’illuminarci. Quando, insomma, entriamo in familiarità con la sofferenza. E può capitare di non saperla frequentare come si deve, la sofferenza. Se perciò qualcuno ci aiuta, ne riceviamo un sollievo, anzitutto morale. Avvertiamo di meno la solitudine, e cogliamo di più (forse non l’avevamo mai colto) il senso della fraternità.
Nell’accompagnare migliaia di percorsi di sofferenza, Giovanni Leva s’è rivelato guida accorta e paziente, saggia e discreta, semplice e mite. Ha ascoltato, consigliato, pregato. Suggerito soprattutto di ritrovare la genuinità del sentimento, troppo di frequente smarrita. E’ stato/è/ continuerà ad essere un medico dell’anima, la categoria in cui vorremmo contare un maggior numero d’iscritti, dato che le anime godono di salute incerta: c’è bisogno di prestarvi cura per scongiurarne l’ammalarsi, e di guarirle quando s’ammalano.
You must be logged in to post a comment Login