La Chiesa a Pentecoste passa da una condizione mortificata dalla paura ad una risvegliata dalla speranza. La paura la conosciamo tutti. Anche la Chiesa ne ha. Soffre di una sorta di sindrome da accerchiamento (forze ostili la vorrebbero privata della sua libertà). Soffre per una progressiva de-cristianizzazione della società, per l’assottigliarsi del numero dei praticanti, per l’eccessiva libertà che ognuno si prende di fronte ai principi morali che essa richiama, per il moltiplicarsi di casi di infedeltà, anche al suo interno…
D’altra parte non può facilmente consolarsi per il consenso di molti sedicenti amici, che ostentano vicinanza per pura convenienza, cui importa un cristianesimo da utilizzare per fini di parte. Un aforisma ricorda che “è meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo”.
Sono paure molto serie che toccano la stessa sopravvivenza. “Siamo gli ultimi cristiani?” si è chiesto p. Tillard, attento osservatore dei fenomeni della vita sociale e delle vicende della chiesa nel mondo di oggi. Ma dietro ce n’è un’altra: “Se dovessimo essere noi i primi cristiani?”. Di una nuova Pentecoste ha parlato San Giovanni XXIII a chiusura della prima sessione del Concilio, che doveva assicurare un balzo in avanti del regno di Cristo nel mondo. Dove e come potrebbe realizzarsi questa presenza dello Spirito pentecostale?
Guardiamo agli Atti degli Apostoli. Un vento gagliardo apre le porte del cenacolo e persone asserragliate dentro trovano il coraggio di uscire all’aperto. È bello osservare che la Chiesa a Pentecoste ha il coraggio di entrare in rapporto con la grande famiglia umana per portare a tutti il messaggio affidatole.
Ma è bello pensare anche ad una Chiesa che rientri in casa. È la chiesa della interiorità. E l’interiorità è possibile solo se in certi momenti si mettono a tacere le voci e i richiami della piazza. Per imparare a parlare a tutti, bisogna imparare prima di tutto il linguaggio del silenzio. Per manifestarsi, si deve deve rinunciare ad apparire e ad autocelebrarsi. Questa è la via che lo Spirito, datoci come consolatore, ci suggerisce per vincere le nostre paure.
“Ma lo Spirito Santo è ancora presente in mezzo a noi?” si chiedono molti cristiani amareggiati per le troppe delusioni patite in questi ultimi cinquanta anni, da quando cioè si è chiuso il Concilio. La risposta la prendo dalla Lettera sullo Spirito che il card. Martini scrisse nel 1997: “Lo Spirito c’è anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è, e non si è mai perso d’animo, ma sorride, danza, investe, avvolge, arriva là dove mai avremmo immaginato”.
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