Nell’antica Roma l’exercitus era costituito da quei cittadini che lo Stato teneva in armi per difendere i suoi legittimi interessi in tempo di guerra e, in tempo di pace, per vigilare sui limites, i confini. Ebbene, nonostante siano passati oltre due millenni da allora, il concetto sul quale si fonda ogni esercito del mondo – perfino quello della neutrale Svizzera – non è cambiato. Eccetto che in Italia! Ciò per una ragione semplicissima e pericolosamente trascurata: non abbiamo più un esercito. Mi spiego meglio… non abbiamo più un esercito che sembri tale, né sotto l’aspetto numerico né sotto l’aspetto della giusta proporzione tra comandanti e comandati, e men che mai sotto il profilo operativo.
Perché un esercito dovrebbe anche apparire tale? Per un’altra trascurata ragione: un esercito “invisibile” risulterebbe inutile al Paese, soprattutto per il mantenimento degli equilibri di pace. E sì, per poter assicurare un minimo di deterrenza e quindi costringere preventivamente i governi a soppesare i costi di una guerra, un esercito deve apparire se non proprio muscolare almeno non rachitico, allo scopo di far capire ad un potenziale malintenzionato che un’aggressione non verrebbe a lui proprio del tutto gratis. Insomma, più credibile è una compagine militare e più aumentano le chance a favore di una pacifica (anche quando “indotta”) convivenza tra i popoli. E quest’affermazione non si basa su di un’opinione ma su di un fatto storico e recente: l’umanità non ha mai vissuto un periodo di pace e di sviluppo come nel periodo della guerra fredda, quando, dal 1945 al 1989, si fronteggiarono i due eserciti più armati e potenti del mondo, quello statunitense e quello sovietico. Questi erano talmente forti che, ognuno di loro, ritenne follia autodistruttiva attaccare l’altro!
Alla luce di questo inconfutabile precedente storico, possiamo sostenere, dunque, che i pacifisti acritici non fanno bene alla causa della pace, specialmente se rivestono cariche importanti nell’ambito del governo e dello Stato.
Nella stanza dei bottoni del nostro dicastero Difesa siede la signora Elisabetta Trenta la quale, come massima carica elettiva, aveva ricoperto prima di questa quella di consigliere comunale a Velletri. Fu voluta, inoltre, da Luigi Di Maio a capo del Ministero della Difesa nel governo gialloverde, nonostante non fosse stata eletta nelle elezioni politiche di marzo del 2018.
L’esordio della signora Trenta alla guida di questo dicastero, che ha un milione di problemi insoluti, non è stato proprio dei migliori. Infatti, appena arrivata, si è preoccupata del girovita dei militari introducendo l’Indice di Massa Corporea – IMC (l’abbiamo trattato su RMFonline del 30 novembre 2018), secondo il quale o il militare doveva acconciarsi a diventare un figurino di Armani, oppure sarebbe stato riformato. Fortunatamente qualche volta il ridicolo sa essere più pesante di una montagna, e la bella pensata d’esordio fu presto accantonata dallo staff della signora ministro, che in ogni caso non l’ama.
Lo scorso 25 Aprile, anniversario della Liberazione, il Generale comandante dell’Aviazione dell’Esercito, Paolo Riccò, ha reagito alle inopportune, gratuite critiche lanciate all’esercito italiano durante la guerra d’Etiopia dal presidente dell’Anpi di Viterbo, Enrico Mezzetti, lasciando platealmente la cerimonia assieme alle molte associazioni combattentistiche presenti e sciogliendo il picchetto militare di rappresentanza. Al polemico e inopportuno Mezzetti qualcuno di via XX Settembre avrebbe dovuto, con un minimo di coraggio, ricordare che se i militari italiani avevano fatto degli errori sia nel corso della guerra d’Etiopia (e onestamente ne fecero) che l’8 settembre del 1943, essi seppero poi riscattarsene col sangue. Infatti, secondo l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, i partigiani morti nel corso della Resistenza furono più di 54.000: di questi 17.488 furono i militari caduti in Italia e 9.249 quelli periti mentre combattevano i nazisti nei Balcani. Come dire che più della metà dei caduti della Resistenza erano militari! Tralasciando il fatto non proprio secondario che un altro militare, il Generale Raffaele Cadorna, nel 1944 divenne il capo militare della Resistenza.
Sta di fatto che a sostegno della sdegnata reazione del Generale Riccò è subito nato il gruppo social “Io sto con il generale Paolo Riccò” che conta, pare, più di cinquemila iscritti tra Ufficiali in pensione e in servizio. In realtà, questa moltitudine di militari, più che stare con Riccò, ce l’ha a morte con la signora Trenta e con i Cinque Stelle, per la loro snaturante gestione della Difesa, per la mancata presentazione del decreto sulle missioni, per la quasi paralisi delle attività amministrative, per il mancato ammodernamento dei mezzi e per le dichiarazioni di pacifismo tanto al chilo, infine, da parte del Presidente del Consiglio. Insomma quella che è in atto nelle nostre forze armate è una pericolosa crisi d’identità, e d’altronde basta avere assistito alla cosiddetta parata militare dedicata alla “festa della Repubblica e dell’inclusione” dello scorso 2 giugno per capire di cosa stiamo parlando: domenica scorsa, in via dei Fori Imperiali, non hanno sfilato le forze armate ma quelle “disarmate”, una sorta di grande ONG un po’ più marziale di quelle che solitamente siamo abituati a conoscere, tra il composto disgusto dei militari che sfilavano e la perplessità di un pubblico solitamente caloroso.
Dopo questa ennesima ipocrita rappresentazione dual use delle forze armate, figuriamoci – a proposito della minima deterrenza – quanto rispetto susciteremo in quei Paesi africani che hanno appena iniziato a scaricarci addosso torme di poveretti dolenti, recalcitranti e potenzialmente rivoluzionarie, delle quali essi non vogliono, e magari non sanno, occuparsi, preferendo scaricare il problema sull’Italia e sull’Europa.
La crisi d’identità in atto nella nostra compagine militare è più profonda di quanto si creda, tant’è che la suddetta parata militare è stata polemicamente disertata da molti Ufficiali tra i quali due di spicco: l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aereonautica Militare, Dino Tricarico, e l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini. E che cosa dire della lotta sotterranea in atto tra l’Aeronautica e la Marina Militare per l’assegnazione dei trenta caccia multiruolo F-35: l’Aeronautica, visto l’esiguo numero di velivoli disponibili, invece di dividerli con la Marina, vorrebbe costituire con essi almeno due Gruppi di Volo nella Base di Amendola. Se non fosse stato per la decisione presa dall’allora Capo di SMD, il solito Claudio Graziano, il quale arbitrò che i costituendi Gruppi di Volo sarebbero stati “interforze”, cioè impiegati sia dall’Aeronautica che dalla Marina. Ebbene, se il nostro improvvido arbitro avesse appreso qualche lezione dalla storia, avrebbe capito che, di là delle sue deficienze strutturali, l’Italia nel corso della Seconda Guerra Mondiale aveva perso la battaglia dei convogli proprio per una decisione come la sua: quando gli aerei servivano all’Esercito sull’importante scacchiere africano, questi venivano impiegati nel Mediterraneo a protezione del naviglio con i rifornimenti; quando invece, servivano a proteggere la Marina venivano impiegati in Nord Africa a favore dell’Esercito. E parliamo di repubblica dell’inclusione?
E non è sempre vero che gli alti gradi militari diventano critici verso il potere politico soltanto quando se ne vanno in pensione, perché proprio Vincenzo Camporini, nella veste di Capo di Stato Maggiore della Difesa in servizio, il 23 luglio del 2008, durante un’audizione in Parlamento, spiegò che a causa dei continui tagli al loro budget le forze armate si sarebbero ridotte ad uno stipendificio, cioè ad un ammortizzatore sociale, non immaginando il poveretto che con i Cinque Stelle al governo le forze armate sarebbero diventate un’organizzazione di boy scout, votati non alla difesa della Patria ma, a quanto pare, all’inclusione.
Ma, poi, riferito ad un Paese democratico dotato di una delle Costituzioni più avanzate al mondo in fatto di garanzia dei diritti dei singoli, che accidenti significa esattamente “inclusione”?
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