“Momentito señor!”. Come a dire: signore, mi scusi un attimo! Il signore che stava rincasando, la sera di martedì 10 maggio del 1960, dopo una giornata di lavoro, era ormai a due, trecento metri dalla propria abitazione in calle Garibaldi a Buenos Aires. Alla richiesta alzò il capo pensieroso, cercò una piccola torcia elettrica che teneva in tasca, vide due auto nere ferme, una Buick e una Chevrolet, di cui una aveva il cofano alzato con un paio di uomini che stavano armeggiando intorno. Pensò a una ricerca di aiuto o di un’informazione.
Ma in un istante si sentì afferrare da mani robuste, la bocca tappata tanto che a malapena riuscì a fare uscire un gemito stridulo; venne scaraventato sul sedile posteriore di una delle due vetture che partì a tutta velocità, seguita dall’altra.
Forse capì tutto in quello stesso momento o, poco dopo, quando seduto su una sedia in un appartamento poco lontano, dinanzi a un uomo, Zvi Ahironi, un agente del servizio militare di informazioni israeliano, si senti rivolgere alcune domande in tedesco: il numero di serie della sua tessera di adesione al partito nazista, il numero di matricola delle SS, il suo nome…
“Ricardo Klement” – Le ho chiesto come si chiama… “Otto Heninger” – Avanti, fuori il suo nome! “Aldolf Eichmann… Mi chiamo Eichmann… So che a tenermi prigioniero sono degli israeliani”.
Adolf Eichmann era nato a Solingen 54 anni prima. Già “SS-Obersturmbannführer”, cioè tenente colonnello delle SS, era stato, nella pratica e nei fatti, il pianificatore dello sterminio di sei milioni di ebrei, il regista dell’olocausto, il superiore, e amico, di Rudolf Franz Ferdinand Höß, comandante del campo di concentramento di Auschwitz – il “gioiello” dei campi nazisti –, quest’ultimo scopritore del micidiale gas Zykon-B con il quale aveva mandato a morte migliaia e migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini – ancora oggi non se ne conosce con esattezza il numero –. Ma, a differenza di Eichmann, che dopo la fine della guerra era riuscito a far perdere le proprie tracce, Rudolf Höß non era sfuggito alla cattura, era stato preso prigioniero, processato e condannato dalla Corte Suprema di Varsavia, impiccato proprio nel cortile di Auschwitz il 16 aprile 1947.
Sulla cattura di Eichmann sono stati scritti decine di libri, sono stati girati anche dei documentari e dei film. Le circostanze dell’evento sono state ormai quasi tutte esaurientemente chiarite e “esplorate”, anche se qualche ombra permane nei particolari che riguardano la sua fuga dall’Italia, dalla quale se n’era andato nel 1950 con passaporto fornito dalla Croce rossa internazionale sulla base di documenti falsi a nome di Ricardo Klement (i documenti sono stati rintracciati in Argentina qualche anno fa), rilasciati dal comune altoatesino di Termèno sulla Strada del Vino, vicino a Bolzano: Tramin an der Weinstraße. Sempre con documenti falsi rilasciati da quello stesso comune, pare qualche anno prima di Eichmann, aveva lasciato l’Italia anch’egli diretto in Sudamerica (Brasile o Argentina) il famigerato dottore, “medico” a Auschwitz, Josef Mengele.
Le ombre di cui si diceva riguardano soprattutto gli aiuti – o presunti tali – che non pochi criminali nazisti ricevettero da prelati o religiosi altoatesini, delle cui mosse, probabilmente, e anche se di ciò non è mai stata trovata alcuna prova, non era all’oscuro nemmeno la Curia vaticana. Così come, per anni, i nostri Servizi di informazione – dell’Esercito e no – sono sempre stati al corrente delle storie di ex nazisti, per lo più ufficiali delle SS, che si erano rifatti vita e famiglie in paesini del Meranese, in Val Venosta.
Dopo un paio d’anni che era riparato in Argentina, Eichmann era riuscito a ricongiungersi lì con la famiglia, la moglie e i due figli. E, si racconta, fu proprio l’amicizia di una giovane con uno dei due figli di Eichmann che permise al dottor Fritz Bauer, procuratore generale dell’Assia, di inviare le prime informazioni ai Servizi israeliani e al Mossad. In un primo tempo si pensò a un errore, perché la zona in cui era stato segnalato il criminale nazista, occupato in un lavoro modestissimo con il nome di Ricardo Klement, non era certo delle più chic di Buenos Aires, anzi; mentre invece si pensava che Eichmann fosse riuscito a fuggire portando con sé un vero e proprio tesoro.
Poi, dopo nuove indagini, la sua presenza venne accertata, e fu Ben-Gurion a ordinare ai suoi agenti: “Portatemi qui Adolf Eichmann, vivo o morto… Meglio vivo”.
Il processo contro Eichmann si aprì a Gerusalemme nella primavera del ’61 e durò mesi. L’uomo era stato trasportato di nascosto in Israele (con l’Argentina non c’era un trattato di estradizione riguardante i criminali nazisti), approfittando di un volo El-Al, approdato a Buenos Aires quasi casualmente nei giorni del rapimento…
Per la lettura dei capi di imputazione furono necessari due o tre giorni. Assistettero al processo centinaia di giornalisti di tutto il mondo. Fu in quell’occasione che Hanna Arendt, a proposito della figura e della vicenda di Eichmann, che pareva l’anonimo e mite burocrate di un qualsiasi ufficio comunale, a coniare la famosa definizione: la banalità del male; ma in effetti il male nella vita di Eichmann, qualunque cosa filosoficamente si possa pensare, aveva raggiunto il diapason. Egli sopportò testimonianze e accuse con freddezza e tranquillità, proclamandosi un semplice esecutore di ordini, quindi “non colpevole”.
Condannato all’impiccagione, morì il 31 maggio del 1962, cinquantasette anni fa. Non volle consumare l’ultimo pasto, ma si scolò una mezza bottiglia di Carmel, un vino rosso israeliano. Ai suoi carcerieri, mentre saliva sul patibolo, disse: “Spero che mi seguiate presto”.
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