Il voto in Italia, e anche in Europa, è volatile. Lo dimostra la sconfitta cocente del Pd l’anno scorso e, ancora di più, il crollo dei Cinquestelle il 26 maggio che, in una manciata di mesi, hanno quasi dimezzato il loro enorme bottino elettorale del 32%. Accadrà la stessa cosa con il 34% di Salvini? Possibile, ma il desiderio che ciò accada non deve offuscare i dati della realtà.
Salvini cavalca la tigre da posizioni più solide dei grillini. Ha cancellato la Lega originale al punto da domandarsi come possano i vecchi leghisti del Nord, secessionisti in una loro stagione, restare con lui dentro una forza nazionalista. La Lega è però un partito radicato nelle regioni più industriali ed ha una classe dirigente niente affatto eccelsa ma abbastanza sperimentata. Soprattutto è una forza politica di destra in un Paese che anche in passato ha conosciuto forti radici di questo tipo.
Le premesse perché Salvini possa durare quindi ci sono ma le scelte sbagliate del governo, le strettoie dell’economia, la sfiducia internazionale e dei mercati, la posizione di minoranza del sovranismo europeo e quindi italiano a Bruxelles, sono mine vaganti che potrebbero far saltare il banco. Nelle condizioni date, solo l’affacciarsi di una reale alternativa potrebbe però accelerare nuove prospettive di governo.
Il cantiere è praticamente aperto in tutto l’arco dell’opposizione, dalla sinistra estrema, al Pd, al centro. La sinistra-sinistra è squassata da ideologismi improponibili e frazionismo masochista, ma una domanda politica di questo tipo esiste ed è augurabile che una risposta prima o poi arrivi. Anche il Pd dovrebbe dedicare attenzione alle richieste concrete, purché non ideologiche, che lì si esprimono. Al centro non ci sono più sigle politiche credibili ma i cosiddetti moderati (espressione che uso solo per semplificare) aspettano anche loro un’offerta politica all’altezza.
Il Pd è per sua natura soggetto alle tensioni da una parte e dall’altra ma gli equilibrismi per accontentare gli uni e gli altri fallirebbero e lo porterebbero all’immobilismo. Dentro un sistema proporzionale meglio una coalizione fra forze diverse che punti a superare largamente il 30% piuttosto che un partito che voglia includerle tutte e perciò destinato all’insuccesso.
La discussione nel centrosinistra sarà intensa soprattutto nel cercare una sponda sul centro visto che a sinistra qualcosa, seppure marginale per ora, esiste già e potrebbe svilupparsi. Attenti però a non pensare ad una operazione da laboratorio nella quale dare le carte a questo o a quello per far nascere sigle nuove che sigle senza futuro rimarrebbero. Sbagliato immaginare che qualcuno possa uscire dal Pd per svolgere quel ruolo se non sospinto da un processo reale dentro la collettività. Altrimenti risulterebbe una manovra a somma zero, inutile e per certi aspetti dannosa.
Le forze politiche che lasciano il segno nascono nel fuoco della lotta politica. Il Pd si getti sempre di più nella soluzione dei problemi del Paese: le periferie, le disuguaglianze, il disagio sociale, la disciplina dei flussi migratori, le infrastrutture moderne, la valorizzazione delle autonomie territoriali, la tutela dell’ambiente e le conseguenze della tecnologia digitale che sta già creando una netta divisione fra chi la usa e chi la subisce.
Sarà il duro confronto politico a delineare gli alleati di coalizione sulle frontiere che il centrosinistra di oggi non potrà e non vorrà coprire, com’è naturale che sia. È il solo modo possibile per dar corpo ad una seria alternativa di governo di cui c’è grande necessità.
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