Secondo Harari la rivoluzione biotecnologica in corso rende inefficaci le narrazioni circa la democrazia e il libero mercato. È venuto meno il loro presupposto, la possibilità che gli individui possano valutare in modo autonomo e informato e decidere meglio qualora dispongano di più opzioni. Agli animi gregari la scomparsa dei conflitti decisionali renderà sollievo. Già molti vivono delegando ad altri o rinviando di continuo le decisioni che li riguardano. Ma gli algoritmi non colgono i conflitti e non comprendono l’etica perché sono programmati per semplificarli. La cieca obbedienza dei robot sostituirà la ricchezza della personalità umana. Già ora Facebook e gli altri giganti online ci trattano come «animali audiovisivi – un paio di occhi e un paio di orecchie connesse a dieci dita, uno schermo e una carta di credito».
In passato la capacità di controllare le informazioni ha inciso poco sul potere. Pur concentrando in sé un potere di decisione assoluta, Luigi XIV non dispose di apparati di controllo fondati su vaste informazioni sui suoi sudditi, inclusi i ministri e i nobili di Versailles. Hitler e Stalin disposero di sistemi di informazione e di controllo ben più estesi e profondi, ma nemmeno i due peggiori tiranni della storia umana poterono instaurare un totalitarismo assoluto. Grazie a reticolari e disciplinati apparati di controllo orizzontale e verticale, il nazismo ridusse il ricorso al terrore contro i tedeschi sottomessi; lo stalinismo non ebbe apparati altrettanto efficienti, e la diffidenza lo obbligò a ricorrere al terrore cieco. Il XX secolo fu caratterizzato dalla discriminazione collettiva di tipo ideologico, etnico e sociale; «nel XXI secolo potremmo dover affrontare il crescente problema della discriminazione individuale», soprattutto a danno dei comportamenti non conformi.
Stiamo creando dei sapiens mansueti come mucche addomesticate. L’esercizio della costrizione fisica fa posto alla servitù volontaria già intravista da La Boétie nella metà del ‘500. Rischiamo di diventare delle “mucche-da-dati” incapaci di coltivare il nostro potenziale umano. La dittatura digitale degli oligarchi dei dati è uno scenario ancora incompiuto perché la coscienza umana mantiene un ruolo nelle scelte e nei comportamenti. La compenetrazione tra i sapiens e le macchine informatizzate sarà tale da costringere i primi a sopravvivere continuamente connessi alla rete. Se tra pochi decenni qualche sperduto eroe decidesse di vivere sconnesso, non troverebbe lavoro, assistenza sanitaria o le istruzioni perché il robot domestico aggiusti il lavandino che perde e sarebbe costretto a capitolare.
Se vogliamo contrastare questa deriva dobbiamo promuovere iniziative per ridurre al minimo la cattura e la conservazione dei dati mediante scudi informatici che ne distruggono la detenzione, lo stoccaggio, il confronto e la vendita. Inoltre, per creare delle tutele immunitarie alla libera razionalità e alla consapevolezza, dovremo pretendere dai governi e da noi stessi maggiori investimenti per elevare la qualità della formazione individuale, dell’istruzione, dell’educazione, dell’informazione critica, delle risorse cognitive e dell’esercizio della riflessività. La razionalità dei soggetti è la condizione perché la democrazia liberale funzioni in modo efficace. La nuova comunicazione riduce la nostra capacità di pensare entro gruppi estesi e accentua la nostra pretesa di poter dire di tutto su tutto, ascoltando solo l’eco di quelli – pochi o tanti – che già la pensano come noi. Dobbiamo prenderci il tempo per riflettere, pensare insieme, divergere serenamente, condividere dei saperi e scambiare conoscenze e riconoscere i nostri limiti.
In parallelo sta trionfando una delle società più disuguali della storia. La frattura tra le classi sociali si estende, i differenziali si allargano. Mentre quattro miliardi di esseri umani vivono in estrema povertà, l’1% dei sapiens possiede metà della ricchezza mondiale. Ma persino dentro questa esigua minoranza privilegiata si stanno scavando abissali differenze di potere. Se questa scandalosa differenza, come sembra probabile, dovesse sovrapporsi al dominio biotecnologico e al monopolio delle informazioni, il mondo finirebbe nelle mani delle cento persone e imprese più ricche del pianeta. Potremmo «avere come conseguenza la divisione dell’umanità in una ristretta classe di superuomini e in una sconfinata sottoclasse di inutili Homo sapiens». Il conflitto sociale che ha alimentato il sistema di welfare e che nel ‘900 ha obbligato i ricchi a politiche redistributive nei redditi, nella sanità, nell’educazione e nella sicurezza sociale potrebbe indebolirsi al punto da inibire ai ceti medio-bassi e inferiori ogni possibilità di ridurre i livelli di disuguaglianza. «Così la globalizzazione, invece di portare a un’unione globale, potrebbe portare alla “speciazione”: la divisione dell’umanità in diverse caste biologiche o persino in diverse specie. La globalizzazione unirà il mondo in senso orizzontale cancellando i confini nazionali, ma dividerà l’umanità lungo un asse verticale». Il cerchio si chiuderà se il monopolio della forza si sposterà dagli stati nazionali, che sulla carta ne restano i titolari, a dei super-oligarchi che vivono entro zone protette da uno schieramento invincibile di macchine da guerra, mentre fuori miliardi di uomini inferociti si combatteranno tra loro a colpi di machete, kalashnikov e atomiche-fai-da-te. Se non la contrasteremo sin d’ora con l’ausilio delle istituzioni liberaldemocratiche, la diseguaglianza sociale si impadronirà irreversibilmente del futuro di tutti i gruppi umani.
Oggi le risorse strategiche dello sviluppo economico sono i dati e non più la terra, le proprietà immobiliari, le materie prime, le macchine e nemmeno i beni finanziari. In passato ciascun motore dello sviluppo fu oggetto di contese tra oligopoli e di contrasti ai monopoli. Ma più siamo saliti di grado e più i monopoli sono diventati più forti e davvero globali. «La gara per ottenere i dati è già iniziata e vede in testa giganti high-tech come Google, Facebook, Baidu e Tencent. Finora queste aziende sembrano avere adottato il modello di business dei “mercanti dell’attenzione”. Catturano la nostra attenzione fornendoci informazioni gratuite, servizi e intrattenimento, e rivendono poi la nostra attenzione alle aziende inserzioniste». In proposito, dovremmo modificare i nostri comportamenti, pagando qualcosa per avere notizie affidabili anziché cedere gratuitamente la nostra attenzione ai mercanti di fake-news. «È però probabile che i giganti dei dati coltivino obiettivi assai più ambiziosi di ogni precedente mercante dell’attenzione. Il loro vero business non è vendere spazi pubblicitari. In realtà, catturando la nostra attenzione, sono in grado di accumulare un’immensa quantità di dati su di noi, un fatto che vale molto più di qualunque incasso pubblicitario. Non siamo i loro clienti – siamo i loro prodotti». La prima vittima di questo spostamento assiale sarà la stessa industria pubblicitaria: sopravvivrà in alcune nicchie, ma perderà ogni potere di influenza. Anche se fosse un baldo quarantenne, oggi il Silvio nazionale resterebbe un piccolo paperone ininfluente. Per gli utenti che, in modo gonzo o corrivo, cedono gratuitamente informazioni su di sé in cambio di accessi gratuiti, la pubblicità è un fastidio che ostacola l’incorporazione di altre informazioni. Oggi Bezos, Gates, Page e Zuckerberg pagano le imprese che rastrellano la pubblicità degli inserzionisti per motivi finanziari contingenti, ma la pubblicità non reca più vantaggi strategici. Il valore delle applicazioni dipende sempre più dalla quantità e qualità puntuale dei dati raccolti e sempre meno dagli introiti ottenuti con i cookies, indispensabili nella sola fase ascensionale di competizione tra applicazioni concorrenti.
Non ci salveremo dal soffice e invisibile potere narco-totalitario delle multinazionali dei dati chiedendo agli stati nazionali di secretare le informazioni oggi rastrellate dalla catena monopolistica Amazon-Windows-Google/Alphabet-Facebook ecc. Dalla dittatura digitale di Bezos & Co passeremmo a un inedito autoritarismo statale, a una dittatura digitale retta da cordate di imprenditori locali del populismo che si sono impadroniti dello Stato. Non si vuol dire che Bezos è meno pericoloso di Putin, ma che dobbiamo prevenire ambedue le alternative. I politici si stanno trasformando in pifferai che hanno appreso a suonare le nostre emozioni e il nostro sistema biochimico. Suscitano in noi a piacimento ansia, odio, gioia e noia. «La politica diventerà solo un teatrino di emozioni». La facoltà di autodeterminazione ne uscirebbe bruciata. Ma l’ignavo consumatore inmucchito non se ne accorgerà. Per sentirsi libero si accontenterà di notificare a Big Data con un like la sua preferenza per i confetti con la glassa azzurra della pasticceria Verdi su quelli con la glassa bianca della confetteria Rossi. Quanto ai già citati padroni delle informazioni globali, non esternano particolari inclinazioni politiche. Bezos sarebbe un repubblicano ostile a Trump; Gates avrebbe simpatie democratiche; Zuckerberg avrebbe favorito Trump con il placet di Putin; e Trump temerebbe che Page voglia favorire gli oligarchi cinesi. Si tratta di voci senza interesse: tutti costoro hanno motivo di preferire chi è in favore di vento e non li minaccia in sede fiscale, finanziaria e commerciale.
«Come si controlla la proprietà dei dati? Questa può essere davvero la questione politica essenziale della nostra era. Se non saremo in grado di risolvere rapidamente questo problema, il nostro sistema sociopolitico potrebbe collassare. La gente avverte già nell’aria l’imminente catastrofe. Forse è per questo che in tutto il mondo tanti stanno perdendo fiducia nella narrazione liberale che solo un decennio fa sembrava invincibile».
Di certo «qualsiasi soluzione per la sfida tecnologica richiede necessariamente la cooperazione globale».
(fine dodicesima puntata – Le prime undicii sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19del 30.03.19 del 06/04/19 del 13.04.19 del 20.04.19, del 04.05.19, dell’11.05.19, del 18.05.19 e del 25.6.19).
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