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Sport

FALEGNAME SU DUE RUOTE

FELICE MAGNANI - 31/05/2019

silvano_continiQuando al Giro d’Italia del 1982, sul Crocedomini, un ragazzo giovanissimo vinse staccando Bernard Hinault, il numero uno del ciclismo mondiale, l’Italia ebbe un sussulto, per un attimo si sentì di nuovo liberata dai pesi e dalle paure che  avevano minato l’ultima parte della sua storia, così lasciò che lo sport, quello sport, inondasse di entusiasmi e speranze la sua immensa voglia di generosità e di lavoro.

Nello sguardo del giovane corridore varesino dal sorriso accattivante, si concentrava il desiderio di rivincita di chi aveva scelto la fatica e il sudore per dimostrare quanto fosse grande il desiderio di aprire di nuovo l’animo alla speranza. Silvano Contini è entrato da subito nel cuore della gente, lo ha fatto in virtù di una generosità e di un talento che andavano oltre le tattiche e le strategie, dimostrando che la sfida è vera sfida quando nasce e prende forma, facendo urlare all’impresa.

Il ragazzo di Leggiuno, aveva così aperto la strada all’immediatezza del gesto sportivo e lo aveva fatto dimostrando la forza di un carattere libero dalle sovrastrutture e dalle incrostazioni di studiate strategie. Ma quando i giochi sembravano fatti, il leone transalpino piazza il colpo e lo sorprende.

Silvano Contini sarà terzo sul podio della classifica finale del Giro dell’82, dietro Bernard Hinault e Tommy Prim, comunicando l’idea che la bellezza e la forza del ciclismo stanno nella consapevolezza di dover dare sempre, liberando la via dalle incongruenze e dalle cattiverie che rischiano in alcuni casi di inchiodarlo a subire i danni di una piatta stereotipia. Contini testimonierà con una fitta sequenza di vittorie la sua fede ciclistica e lo farà ispirandosi alla spontaneità e all’immediatezza di un talento naturalmente predisposto al grande gesto. Resta emblematica, nel 1982, la sua vittoria allo sprint nella Liegi-Bastogne-Liegi, la classica del nord amatissima dal popolo del ciclismo, una gara dove l’enfant prodige di Leggiuno batte De Wolf, Criquielion e Mutter, tre campioni del nord, avvezzi ai trionfi nelle classiche di casa. Emblematici sono i giri e le classiche vinti in virtù di un talento straordinario, capace sempre di emozionare e di far esultare i tifosi del ciclismo.

Incontro Silvano nella sua falegnameria alla Baraggia di Leggiuno, dove ha preso forma la sua natura artigianale, ereditata da uno zio che credeva nella straordinaria duttilità del legno e nella natura determinata e appassionata del nipote. È in questa falegnameria dove il campione si prende cura della costruzione e del restauro, dove può dare libero sfogo alla sua vena artistica e artigianale, senza le pressioni dei media e delle prestazioni, raccolto in un religioso silenzio, rotto ogni tanto dal via vai dei clienti o dall’arrivo di qualche ciclista o di qualche giornalista sportivo desideroso di sapere qualcosa di più del suo passato e del suo presente.

Silvano, come ti senti nei panni del falegname?

Benissimo. Rispecchia un po’ il mio carattere e la natura stessa del ciclismo, perché devi imparare a gestirti, a essere autonomo, devi saper ottimizzare i tempi, avere una percezione chiara di ciò che devi fare, inventando il risultato se necessario; è importante studiare la situazione, trovando le giuste soluzioni. I lavori standard non danno di solito una grande soddisfazione, devi cercare solo di farli bene, è quando ne fai qualcuno particolare che entrano in gioco doti personali come la fantasia, la creatività, la capacità di mettere a punto quello che hai dentro. Mi occupo di serramenti, ma non solo. Amo il mio lavoro e la gratificazione nasce quando riesci a risolvere i problemi, quando sai trovare la risposta giusta a situazioni che possono apparire insolubili. Ho una particolare predilezione per i serramenti ad arco, magari con chiusure particolari, mi piace rimettere a nuovo mobili, tirar fuori da una cosa distrutta qualcosa che la possa restituire alla sua originale bellezza.

Come vivi oggi i tuoi ricordi?

Benissimo. Sono a volte i miei figli che mi dicono: “Sai papà che quella persona mi ha detto, tu sei il figlio di quel Silvano Contini che correva in bicicletta? Ma come fanno a conoscerti?”. Oppure:“Sai papà, ho incontrato quel signore e mi ha detto di salutarti, si ricorda di quando correvi…”. Sono loro che mi rimettono in relazione con quel mondo al quale ho consegnato la mia giovinezza e dodici anni di professionismo, con delle belle soddisfazioni. Vivo il mio passato con la convinzione di aver fatto tutto quello che potevo e che dovevo, quindi non ho rimpianti.

Ci sono dei segreti nel ciclismo?

Quando sei in bicicletta non ti devi chiedere dieci volte se devi fare uno scatto, lo fai e basta. La testa è fondamentale, è la cabina di regia, il posto di comando da cui partono gli ordini. Per essere al top bisogna che ci sia una perfetta sintonia tra le parti in causa, fermo restando che la testa abbia la prevalenza su tutto. Sono sempre convinto che le imprese siano quelle che spesso sfuggono alle strategie e ai giochi, sono quelle che t’inventi al momento, che sorprendono tutti e che, proprio per questo, diventano uniche e inimitabili. Sono stato un interprete dell’immediatezza del gesto, ho cercato di essere me stesso e di non lasciarmi condizionare, ho cercato di fare quello che sentivo giusto. Nel ciclismo fine anni settanta, fino agli anni novanta, il ciclismo lasciava ampio spazio alla creatività personale, aveva un carattere umano, i rapporti erano governati dalla collaborazione e dal buon senso, i soldi erano importanti ma non determinanti, contava moltissimo chi eri, come ti comportavi, l’impegno che mettevi, ci si sentiva un po’ tutti nella stessa barca  e così ogni cosa diventava più facile. Oggi la realtà è molto più complicata, la tecnologia impone e condiziona, le strategie mortificano la libertà personale e in molti casi ci si vede e ci si conosce molto poco. Il denaro crea le disuguaglianze e alimenta l’immobilismo, chi ha buoni sponsor corre e chi invece non ne ha è costretto ad accontentarsi. Il corridore si sente spesso vittima di un sistema che lo costringe a sottomettersi, a essere gestito e guidato senza poter opporre resistenza.

Silvano, avresti potuto vincerlo quel Giro d’Italia dell’82?

C’è stato un momento in cui l’ho pensato, ma onestamente, col senno del poi, credo che le cose siano andate come dovevano. In quel momento l’impresa è stata di aver messo alle corde l’uomo da battere, di averlo fatto sudare fino all’ultimo, strappandogli una maglia rosa formidabile sul Crocedomini. Un giovane di ventidue anni si prendeva la maglia rosa a due passi dalla vittoria finale e lo faceva con quella giovanile sfrontatezza che regalava emozioni e convinzioni a tutto il popolo del ciclismo. I tifosi hanno capito il mio modo di essere in un mondo complicatissimo, hanno compreso il valore di quello che avevo fatto, poco importava se ero passato terzo sul podio, quello che avevo fatto era esattamente quello che la gente si aspettava. La gente sa capire chi sei e quello che fai, è molto meno stupida di quanto si possa immaginare, non è necessario vincere, ma occorre dimostrare che tu, di quel Giro, sei stato il vero protagonista, lo hai valorizzato con la tua voglia di fare bella figura e di far fare bella figura al tuo paese. Sapevo che Hinault era il più forte e sapevo benissimo che non sarebbero bastati  quei minuti di vantaggio in classifica generale per decretarne la sconfitta. La verità è che l’ho sempre temuto, soprattutto nel momento in cui lo avevo detronizzato. I grandi dimostrano il loro valore quando devono riprendersi da una sconfitta, quando devono dimostrare di che pasta sono fatti e Bernard era uno di questi. In quello stesso anno ho battuto Hinault in classiche di notevole importanza, ho dimostrato che avevo lavorato con grande professionalità e che ero in grado di ritagliarmi bellissime vittorie. Quello che ho fatto è stato possibile perché mi sono impegnato al massimo, ho impregnato di sacrifici e di volontà i talenti che madre natura mi aveva consegnato.

Il ciclismo ha bisogno di emozioni?

Credo che la bellezza di questo sport stia anche nell’intuizione, nella capacità di saper inventare la corsa, offrendo il meglio di sé quando gli altri meno se l’aspettano. Il talento consente a volte di creare all’istante situazioni che potrebbero sembrare impossibili. Ricordo quel Giro di Lombardia, quando siamo partiti io e Hinault in una fuga di centocinquanta chilometri, con dietro Moser e Saronni con le squadre che tiravano, fortunatamente non ci hanno preso. Sono imprese che rimangono e che non cancelli più, fanno parte di una storia personale che si colora di sfumature diverse da quelle del calcolo e della programmazione. Il ciclismo è bello anche quando esce da consumati cliché, da pianificazioni esagerate, dai giochi di squadra, quando  diventa espressione di un talento che sorprende per la sua immediatezza e autenticità.

Silvano Contini è nato a Leggiuno di Varese il 15 gennaio 1958. Ciclista professionista dal 1978 al 1990, ha corso per la Bianchi Faema, la Bianchi Piaggio, l’Ariostea, la Gis Gelati, la Del Tongo Colnago, la Malvor Bottecchia, la Malvor Colnago e la Gis Benotto. Vanta 48 vittorie, quattordici giorni in maglia rosa e cinque presenze in nazionale. Tra i suoi successi spicca quello nella Liegi-Bastogne-Liegi del 1982. Lunga la serie di classiche e Giri vinti: il Giro del Lazio, il Giro di Germania, il Giro dei Paesi Baschi, il Midi Libre, il Tour de l’Aude, la Coppa Placci, il Trofeo Baracchi (in coppia con Gisiger), il Giro del Piemonte, il Gran Premio di Camaiore, il Trofeo Matteotti, la Coppa Bernocchi, il Trofeo dello Scalatore, la Ruota d’Oro, il Giro dell’Umbria, il Giro di Puglia, il G.P. di Prato, la Coppa Sabatini.

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