Tra poco sarà un secolo: il 15 settembre 1919 nasceva a Castellania. Fausto Coppi, Sarebbe morto il 2 gennaio del 1960, a Tortona, dopo una carriera da campionissimo del ciclismo che aveva indicato una via, quella dello sport, a un mondo dominato dai drammi della seconda guerra mondiale.
Da un’Italia consumata dalla tirannia, dalle guerre e dalle distruzioni, usciva con prepotenza l’immagine di un campione cresciuto nelle corti di campagna, capace di ricostruire una gioia e una speranza, di restituire nuovi sorrisi e nuovi entusiasmi a chi per troppi anni aveva vissuto il clima esasperato della paura e della privazione. Il campione di Castellania riuscì a portare lo sport del ciclismo ai vertici della rinascita italiana, rimettendo in circolo una speranza troppo a lungo repressa.
Un Coppi con le ali dunque, un corridore capace di vincere cinque Giri d’Italia, due Tour de France, tre Milano Sanremo, due Giri d’Italia e due Giri di Francia nello stesso anno, l’uomo del Record dell’Ora, della Parigi Roubaix, della Freccia Vallona, del Giro di Lombardia, del Trofeo Baracchi, del Gran Premio delle Nazioni, dei Campionati del Mondo d’Inseguimento, del Campionato Mondiale, un fenomeno capace di staccare di undici minuti il grande Gino Bartali, nella Cuneo Pinerolo, al Giro d’Italia del 49.
Fausto Coppi è il campionissimo che ha avuto forse il torto di essere uscito involontariamente dai vincoli di un costume da cui sarebbe stato difficilissimo emanciparsi senza pagare dazio, un campione solitario, dal viso riservato, forse troppo tenero per sostenere lo sguardo indiscreto dell’amore e troppo grande per resistere all’invidiabile richiamo della storia. Una vita esaltante, euforica, entusiasmante quella dell’Airone, ma anche complessa e imprevedibile, prigioniera di un mondo forse impreparato a indossare usi diversi da quelli della tradizione. Coppi è stato il campione capace di volare, lasciando spesso gl’ inseguitori in un gelido purgatorio terreno, l’atleta che ha saputo rispondere con fierezza contadina ai drammi del suo tempo.
Ricordarlo è ritrovare il senso della storia, riannodare il coraggio di un popolo alla sua identità, un popolo capace di sorridere anche quando la vita alza muri insormontabili. La memoria di lui evoca un rimescolio di brividi, riaccende il cuore di chi ama lo sport e di chi crede che il ciclismo, nonostante i suoi problemi, sia sempre una bandiera di bellezza e di coraggio di gente che riconosce nella fatica, l’anima popolare della propria storia.
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