Ma chi vuole il male dell’Italia? La domanda è legittima se si pone mente, in primis, ai programmi elettorali dei partiti.
È al governo Tizio. C’è la disoccupazione? Ci sono grossi problemi di economia e di deficit? Caio si propone dicendo che, appunto, se le cose vanno male nel Paese è proprio colpa di Tizio, che è disonesto, che non è capace, che è incompetente ecc.ecc. Quando Caio sostituirà Tizio, le cose cambieranno. E spesso, gli elettori ci credono e lo premiano, scommettendo su di lui.
Il fatto è che – e si fa abbastanza in fretta a rendersene conto – anche con Caio le cose non cambiano di una virgola: il lavoro latita, l’economia non fa passi avanti, la disoccupazione e i poveri sopravanzano e i problemi si assommano ai problemi.
Non è più una questione di destra o di sinistra, quando a destra si vorrebbero mettere il capitalismo, la conservazione, la poca tolleranza e un certo egoismo, e invece a sinistra risiederebbero il progresso, la solidarietà, il sostegno alle classi meno abbienti e ai lavoratori (se ci sono).
Si evince, ormai, che il male e il bene siano categorie trasversali. Non dipende dai partiti, dai movimenti – come meglio piace loro definirsi – bensì dalle singole persone che decidono di scendere in campo “per il bene dell’Italia”, appunto, e non è sempre detto, ovunque si guardi, che quelle singole persone alla prova dei fatti rispondano ai criteri di competenza, di onesta, di capacità e così via.
Quando non si sa più che cosa dire, e il Paese continua a andare male, spesso come prima o peggio di prima, c’è sempre una scappatoia: la colpa è dei “poteri forti”. Ma quali? Come la famosa araba fenice: dove siano nessun lo dice, chi siano – questi dannati poteri forti – nessun lo sa. E si va avanti così, alla cieca: oggi a te, domani a me.
Viene in mente una considerazione, subito. Se Tizio e Caio – entrambi – vogliono il bene del Paese, ed entrambi srotolano ricette di guarigione e di ripresa, e guarigione e ripresa non si intravedono, potrebbero essere possibili due cose: né Tizio né Caio sono in grado di fare bene, ed meglio che se ne stiano a casa in attesa, chi sa, di un Sempronio, oppure sia Tizio sia Caio hanno nei loro programmi qualcosa di buono e di decente ma non riescono a attuarli perché presto ridimensionati e annullati da programmi… uguali e contrari.
Queste situazioni portano il cittadino a concludere con un’affermazione: “La politica è una cosa sporca”, comunque la si faccia e la si veda; oppure con un’altra simile: la politica è una cosa inutile – una vecchia e antica credenza sull’inutilità di governare il bel Paese –, e allora si spiegherebbero le altissime percentuali di non votanti.
Da gran tempo si rileva che coloro i quali esprimono un’opinione e una scelta, o una scommessa, ponendo nell’urna il loro voto non sono la quasi totalità degli aventi diritto, ma più o meno la metà. Sicché un trenta per cento dei consensi a un partito, che secondo gli andazzi (e i sondaggi) sarebbe cosa da leccarsi i baffi, equivarrebbe a un quindici per cento, percentuale consistente ma non tale da far gridare al vincitore la rappresentanza di tutto il popolo.
Sono alcuni aspetti di una democrazia da rattoppare. È vero, come si dice: gli assenti hanno sempre torto. E perciò anche i non votanti. Ma in questo quadro può apparire come demagogico anche il provvedimento di ridurre drasticamente i parlamentari (se ne parla da anni). In effetti, 315 senatori e 630 deputati, in due Camere pressoché simili come compiti e attribuzioni, sono un po’ troppi. Ma forse, senza tanti proclami, basterebbe equiparare il numero dei parlamentari eletti al numero dei votanti. Con dei limiti, certo. Ne vedremmo delle belle.
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