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Politica

EUROPA/4 SUONATI AL GONG

SERGIO REDAELLI - 24/05/2019

????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????Pugile suonato, zecca comunista, lo prenderei a calci nel sedere: il quotidiano scambio di insulti tra gli alleati di governo accompagna gli italiani al voto del 26 maggio. Sembra di essere a uno spettacolo di Beppe Grillo al Politeama Genovese, la politica parla la sua lingua. Conti economici, spread e debito pubblico a parte, si ride quasi fino a piangere. Il governo del cambiamento agonizza tra ingiurie, sceneggiate e promesse al vento. Ci mancava solo il comizio “religioso” di Milano a base di rosari e invocazioni elettorali alla Madonna e possiamo dire di avere visto di tutto.

Dai tempi del governo Renzi e delle ultime elezioni europee, cinque anni fa, il M5s ne ha presi di abbagli. A cominciare dal referendum che Beppe Grillo voleva indire per fare uscire l’Italia dall’euro. Nel 2014 era la parola d’ordine, oggi l’argomento è sparito dall’agenda di Luigi Di Maio. L’odio antieuropeista si è trasformato in spirito collaborativo. Il vicepremier ora propone il salario minimo europeo e il costo della manodopera uguale in tutta l’Unione. Niente di male, capita a tutti di prendere lucciole per lanterne. L’importante è capire l’errore e convincersi che la casa comune deve essere un’Europa solida e unita.

Il voto è l’occasione per fare un bilancio del “M5s di governo”, al netto delle scoppole già rimediate in Abruzzo e Sardegna, solo parzialmente riscattate dal voto comunale in Sicilia. Un calvario di pentimenti e retromarce! Lega e M5s sono divisi su tutto, ma in ossequio a una vecchia regola tutta italiana che fino a ieri contestavano, governano insieme e si tengono stretta la poltrona, a meno di doverla mollare per inchieste giudiziarie. Nulla di nuovo sotto il sole. È la vecchia politica di sempre, altro che cambiamento. Fa ridere la pretesa di Grillo & C di essere geneticamente diversi. Una battuta di repertorio.

In pochi mesi Di Maio è passato dalla richiesta di impeachment per il presidente della Repubblica Mattarella, reo di avere posto il veto al sovranista Paolo Savona come ministro dell’economia, a definirlo “angelo custode del governo”, garante della Costituzione sulla legge di bilancio. Verba volant. E come dimenticare il flirt con i gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi? Altro che incendio a Notre Dame! Ora il delfino di Beppe Grillo spera di confondere le idee agli elettori italiani presentandosi come forza moderata con la testa sulle spalle. Ha un bel coraggio.

Se il buon giorno si vede dal mattino, delude anche la “nuova” Rai che l’amministratore delegato Salini prometteva “indipendente e capace di valorizzare le qualità professionali di chi ci lavora”. Debuttò, ricorderete, con le critiche piovute dalla direzione di Rai1 al Festival di Sanremo quando Baglioni si permise di esprimere la sua opinione sul caso Diciotti e con le censure interne mosse a Fabio Fazio per l’intervista al premier francese Macron. Ora le forbici del potere tagliano le ultime tre puntate del programma Che fuori tempo che fa, in curiosa concomitanza con le critiche di Salvini allo stipendio di Fazio.

Non meno inquietante è l’insistenza del sottosegretario Crimi che vuole chiudere la voce alternativa di Radio Radicale e tagliare i finanziamenti statali a giornali cattolici come Avvenire. Grillo, il grande censore dei governi altrui, quando si tratta della sua creatura, sia pure a mezzo servizio con la Lega, chiude non uno ma due occhi. Terminata l’epoca dei vaffa e delle oceaniche adunate in piazza, delle nuotate Scilla-Cariddi per impressionare chi ha paura dell’acqua e delle sparate contro i presidenti della Repubblica da ospizio (che dovrebbero “andare al Pincio a dar da mangiare ai piccioni”), fiuta che l’aria è cambiata.

Oggi deve fare i conti con i flop elettorali, con gli studenti che lo contestano a Oxford e con il pubblico, una volta osannante, che a teatro gli dà del traditore. L’ultima beffa è la più dolorosa. Al comico di Genova tocca assistere alla resurrezione dell’odiato Pd. “È finita la pacchia” lo prenderebbe in giro Salvini, se non fosse anche lui di pessimo umore. Le cose a Pontida non vanno come sperava. Il suo atteggiamento rigido sui migranti ha perso appeal da quando si è alleato con forze retrograde come il premier ungherese Viktor Orban che sogna un Paese di fili spinati e ronde di guardia.

Le foto scattate con il binocolo sulla torre di controllo evocano immagini di segregazione e non piacciono ai cittadini che sognano un Europa forte ed efficiente, non un lager di reticolati. Diciamolo, il governo ultimamente non ne indovina una, sembra un pollaio dove i galli si beccano furiosamente scambiando gli elettori per galline. Le urne potrebbero punirlo. Soltanto ai primi di febbraio il premier Conte prometteva un bellissimo 2019. Giurava che “l’Italia ha un programma di ripresa incredibile”, che al governo “andiamo d’accordo, non litighiamo e non ci sono motivi di divergenza, assolutamente”. Al gong preelettorale sembra che di pugili provati, se non suonati, ce ne siano più di uno.

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