(C) Cari amici, scusatemi se per questa volta farò tutto da solo, un impegno imprevisto mi ha impedito di confrontarmi con Conformi e Desti e avrei comunque dedicato grande parte dell’Apologia ad aspetti informativi, ricavati da fonti neutre rispetto al dibattito partitico. Credo tuttavia che certe notizie aiuteranno a farsi un’idea vicina all’oggettività, nonostante le polemiche di sempre e le correzioni di rotta (strumentali?) compiute da certi partiti in questi ultimi giorni. Infatti anche chi ha per mesi predicato l’uscita dall’euro e dall’Unione, oggi si propone come propugnatore di un pur radicale cambiamento dall’interno della logica economica e politica dell’UE, senza però spiegarne le possibili azioni.
Il primo concetto che intendo ribadire è che l’Europa non è nata da pochi anni, né dai Trattati di Roma del 1957, né da quello di Maastricht del 1992, né da quello di Lisbona che ha surrogato in gran parte la mancata approvazione della Costituzione Europea. Europa è una CIVILTÀ, che in passato ha abbracciato aree anche più vaste di quelle che oggi vengono riconosciute come ‘europee’ dalla geografia fisica e politica, per esempio le altre sponde del Mediterraneo.
In che cosa consiste principalmente il lascito culturale di questa civiltà, largamente esportata in America e in Asia nell’epoca moderna, ma oggi purtroppo minacciato anche all’interno dell’Europa stessa? Ne elenco brevemente i tratti principali, senza poterli declinare come, a beneficio dei lettori più giovani, meriterebbero.
Ci sono altri meriti e rimangono altre criticità. La più evidente è quella demografica, sia come invecchiamento della popolazione, sia come mancata crescita della stessa, specialmente in confronto a quella dei Paesi meno sviluppati degli altri continenti, da cui nasce, ma solo parzialmente, il problema dell’emigrazione.
Vediamo dunque attraverso la documentazione fornita dall’ISPI, come ed entro quali limiti l’UE può intervenire. (per distinguere il documento dell’ISPI dalle mie considerazioni, lo citerò sempre in corsivo).
Una prima questione è quanto debba essere grande il bilancio dell’Unione,
“ovvero di quanti soldi ci sia bisogno per permettere di realizzare le politiche gestite a livello comunitario. È un tema che ha una evidente valenza politica perché impone di decidere quante risorse sottrarre agli Stati per accentrarle su Bruxelles.
Oggi il bilancio dell’Ue si aggira intorno ai 145 miliardi l’anno, equivalenti a circa l’1% del reddito nazionale lordo (RNL, un dato molto simile al PIL) dei 28 Stati membri. Negli anni Novanta la quota aveva raggiunto l’1,3% del RNL: c’è stata dunque una contrazione, anche se di pochi decimali. In tutto, la spesa attuale è equivalente a circa il 2% della spesa pubblica totale dei 28 membri. In altre parole, per ogni 100 euro di spesa pubblica in Unione europea, solo 2 sono amministrati e gestiti a livello comunitario”.
Mi sembra evidente che sulla base di queste percentuali non possiamo accusare l’UE di svuotarci le tasche o di essere incapace di realizzare quegli scopi che i Paesi membri non ottengono con il 98% delle risorse.
“Una seconda questione verte intorno al tema di come finanziare il bilancio comunitario,ovvero utilizzando quali risorse. A oggi, quasi 7 euro su 10 del bilancio Ue provengono da trasferimenti diretti dai bilanci nazionali sulla base del loro RNL. I restanti 3 euro provengono invece dalle entrate generate dai dazi comuni Ue (1,6 euro su 10) e da una parte delle imposte sui consumi (IVA) nei singoli Paesi (1,2 euro su 10).
Negli anni, diversi studi hanno espresso la forte preferenza per spostare il più possibile le entrate dai trasferimenti diretti degli Stati membri a quelle che l’Ue definisce più propriamente risorse proprie – dazi e IVA. L’idea è quella di “depoliticizzare” il dibattito sul bilancio comunitario, aumentando la percezione delle entrate come risorse “da tutti e per tutti”.
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Non voglio concludere con la scontata banalità di osservare che il voto europeo non dovrebbe incidere sugli assetti politici italiani, come se perciò potessimo starcene a casa o non assumere un giudizio pertinente ed un comportamento elettorale conseguente. Deve incidere, perché incide di fatto sul nostro presente, sul nostro futuro, ma ancor più che su certi aspetti dell’economia (ho volutamente trascurato il tema del debito pubblico e della funzione di sostegno che la BCE ha esercitato a nostro favore negli ultimi anni, TANTO è NOTO A TUTTI) e sugli aspetti della CIVILTA’ POLITICA, diretta espressione di quella civiltà culturale ed etica che, ripeto, è la natura intrinseca di ciò che chiamiamo Europa.
Il voto ad un partito sinceramente europeista, lascio ai lettori decidere quale, dovrebbe fare premio su ogni altra considerazione di breve periodo e di rancore ingiustificato verso quella parte della classe politica alla quale, troppo comodamente, attribuiamo tutti quei mali sociali di cui invece siamo in buona parte corresponsabili, tutti quanti.
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