È spuntata insieme alle azalee, questa stella vaporosa di tulle evanescente sul cancello del mio vicino. Sentirò fra qualche giorno l’eco smorzata di pianti imperterriti e ritmici, quei “lllèe lllèe”- che fanno tanta tenerezza a chi può chiudere la finestra e spegnerli tra i doppi vetri.
E poi la vedremo, la prima nata di primavera, vestita di tutto punto come minuscola adolescente, jeans con cerniera, t-shirt giro collo e mini felpa, e magari fascia rosa nei capelli e calzine firmate, a scimmiottare sorelle e zie.
Quanto più fortunati noi degli anni ’50, che avevamo una moda esclusiva per noi bebè, le nostre esigenze e le nostre comodità.
Intanto, il corredino di lana o di cotone era tutto confezionato da mamme nonne zie madrine vicine di casa, ai ferri o all’uncinetto, con una scelta obbligata di colori pastello: bianco, rosa, celeste, giallo pulcino e verde tenero. Capi unici nei quali ogni massaia si cimentava giocando abilità ed esperienza. La biancheria intima richiedeva camicini di batista, smanicati e allacciati solo con un nastrino sul dietro, ricamati bianco su bianco da dita magiche; i coprifasce invece erano una sorta di cortissimo vestitino chiuso sulla schiena con un solo bottoncino, con maniche a sbuffo e vistosi corpetti a nido d’ape che dava un tocco di eleganza al piccolo imbozzolato nelle fasce.
Eh sì, ancora qualche nonna azzardava a suggerire l’impacchettamento del pupo a mo’ di mummia… Ma la modernità incombeva. Così, al posto delle fasce, si sfogliavano le riviste di moda per scegliere tra ghette (pantaloncini con piede e pettorina) abbinate a un golfetto a manica lunga incrociato a scialle o chiuso con tre bottoni, e tutina completa con patella sul di dietro, una sorta di impagabile sportellino sul culetto, apribile per il cambio. Oppure optare per la vestina con mini gonnella svasata e arricciatura ricamata sul petto, o pantaloncini corti, sempre con pettorina; sempre con nastri e nastrini in quantità industriale.
Le scarpine – non le calzine di oggi – avevano cento fogge diverse, ma tutte si allacciavano con un cordino ritorto infilato nei passanti ad altezza caviglia, e ce ne volevano un’infinità, perché il lavaggio quotidiano le infeltriva e le deformava senza pietà. Poi c’erano le muffoline per il freddo, e le cuffiette stile aviatore con pon pon e sottogola; anche in versione estiva, ovviamente senza pon pon, ma con un bottone rivestito di stoffa sul cocuzzolo.
E infine, per la cerimonia del battesimo – guai a rimandarlo più di una settimana dalla nascita! – ecco il porte-enfant, un morbido cuscino poco imbottito dagli angoli smussati, con una fodera di organdis ricamatissima, in cui infilare il pupo che ne sporgeva a stento con la testolina.
A questo guardaroba frou frou non mancava però il “lato oscuro”: in mancanza di meglio, i bisognini del pargolo avevano ben poca barriera, e niente usa-e-getta. Sul tenero culetto si avvolgeva un bel triangolo di cotone leggero con uno spesso inserto di spugna al centro, spesso chiuso con la spilla da balia (la chiamavano “di scurezza”!!); sopra andava il ciripà, una lunga striscia di maglia di cotone piegata in due e allacciata con fettucce, e infine la mutandina di lana o di cotone. Impermeabilità zero, lavaggio – dell’intero abbigliamento – tre-quattro volte al giorno in fontana o in vasca. E sederini sempre arrossati.
Benedetti i pampers!
Peccato che per levare dalle gambette agitate i pantaloncini di jeans elasticizzato, aprire la cerniera, slacciare il bottone metallico, sfilare le magliette dalla testa (sempre troppo grossa), e rompere l’adesivo della mutandina, le povere nonne ci impieghino una vita.
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