C’è una piazza, a Varese, che, ogni volta che l’attraverso, mi fa vergognare di essere varesina – ancorché d’adozione. È Piazza 20 Settembre. Qualche anno fa fu soprannominata Piazza delle badanti, da quando alcune di loro avevano preso l’abitudine di incontrarsi lì e di riposarsi sulle panchine nei momenti di libertà. Ora bisognerebbe chiamarla Piazza delle panchine scomparse. Quei sedili, infatti, sono stati rimossi. Qualcuno dice perché venivano spostati di continuo: io credo – e spero sinceramente di essere smentita – per evitare che le badanti si radunino in quel luogo.
La vergogna che provo per un gesto così meschino si è acuita giorni fa, quando ho letto un’inchiesta su queste lavoratrici condotta dal Corriere della Sera in Moldavia. Molte, dopo aver assistito in Italia, per anni, malati di Alzheimer o di demenza senile, una volta tornate in patria hanno dovuto essere ricoverate in ospedale psichiatrico. Sindrome Italia: due psichiatri di Kiev, già nel 2005, hanno chiamato così il complesso di sintomi manifestati dalle Moldave (ed anche da Ucraine, Romene, Filippine, Sudamericane, ecc.). Non si tratta, dicono, di una malattia, ma di un fenomeno medico-sociale.
Usiamo pure un termine più accattivante, ma comunque le donne colpite da questo “fenomeno” sentono le voci, hanno attacchi di panico, piangono in continuazione, soffrono d’insonnia; un terzo di loro tenta il suicidio e spesso ci riesce. Sono afflitte da un sentimento che, nella lingua moldava, ha un nome intraducibile, dor, che esprime insieme desiderio della vita perduta e dolore per non poterla più riavere.
E come potrebbe essere diversamente? Si trovano a vivere in un Paese straniero, di cui conoscono poco lingua, consuetudini e costumi; hanno a che fare, 24 ore su 24, con persone non autosufficienti, che hanno perduto la capacità di ricordare, di pensare e di ragionare e con cui, quindi, non possono costruire un rapporto che vada al di là della cura fisica. Con i familiari lontani hanno solo contatti telefonici. E quando tornano nel proprio Paese, a volte non trovano più i figli, perché spesso la sindrome Italia colpisce anche loro, fino a condurli al suicidio ancora in età adolescenziale. Nella migliore delle ipotesi trovano degli adulti, che sono cresciuti con i nonni, con i vicini di casa, persino da soli, e sono diventati degli estranei.
Fortunatamente non tutte assistono malati di Alzheimer, ma tutte svolgono comunque un’attività alienante e l’unica possibilità che hanno di conservare la propria salute emotiva e mentale e di mantenere un’identità è quella di incontrare persone che condividano un’esperienza simile.
Nella bella stagione, Piazza 20 Settembre era diventata, per le nostre badanti, un luogo di aggregazione, dove discutere delle proprie esperienze, ricevere consigli o semplicemente scambiare quattro chiacchiere durante l’”ora d’aria”, per poter recuperare la parvenza di una vita normale. E se spostavano le panchine, era per seguire l’ombra e godere di una sosta più confortevole.
Quelle panchine non erano solo un arredo urbano. Erano diventate un piccolo segno di accoglienza e di gratitudine verso coloro che curano i nostri vecchi sollevandoci da un compito
difficile e doloroso. Sarebbe stato un gesto di civiltà aggiungerne altre, in modo che non fosse necessario spostarle nel corso della giornata.
Ma con le panchine Varese ha un rapporto conflittuale: penso, ad esempio, anche a quelle di Viale Dandolo, nate “a due piazze” e poi diventate “per single”. Motivo – non dichiarato, ma abbastanza evidente: evitare che gli extracomunitari o i clochard le usino per dormire. Come se in questo modo si risolvesse il problema.
Due gesti di uno squallore che dovrebbe suscitare la nostra indignazione.
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