Un Piero Chiara che non tutti forse hanno avuto la possibilità di leggere è stato offerto dall’editore Aragno. La presentazione del libro, una vera chicca, è avvenuta come anteprima al Salone di Torino, incendiato dalle note polemiche politiche. E ne ha pagato le conseguenze.
“In viaggio”, 362 pagine, 25 euro, è una raccolta dei reportage scritti da Chiara per alcuni giornali a partire dal 1950 e sino al suo ingresso nella élite letteraria nazionale. A Federico Roncoroni dobbiamo la felice intuizione di proporre questi scritti, che sono ancora fresche, vivissime e ancora attuali valutazioni dovute all’impatto di un viaggiatore appassionato e attento alle nuove realtà che incontrava.
Alla raccolta di reportage Il Giornale del 10 maggio ha dedicato una intera pagina pubblicando anche una stimolante, finissima analisi di Chiara su Barcellona.
Il recupero di questo raffinato, accessibile sguardo sulla città catalana ha anche il pregio di presentarsi come una tappa della formazione del Chiara scrittore destinato al successo.
“In viaggio” lo dobbiamo a Federico Roncoroni, erede letterario e scrupoloso regista del ricordo di chi ha legato la sua prestigiosa avventura letteraria alla nostra terra.
Il ricordo di Piero Chiara venne affidato anche al premio letterario nazionale, ancora oggi in auge, che gli venne intitolato per iniziativa comunale. Una curiosità condita da un pizzico di ipocrisia in un momento storico grandioso per la comunicazione aperta, generale a portata e al servizio di tutti.
Negli ultimi anni infatti si è ricorso a cortine fumogene sulla nascita del premio perché erano i tempi di inchieste politiche, nelle quali mai il Premio Chiara venne coinvolto. Erano tempi di pistole fumanti sul fronte giudiziario.
Oggi salutando con gioia questo nuovo e inatteso sbarco in libreria di Piero Chiara mi piace ricordare la nascita del premio nel quale, con compiti adatti alla mia preparazione di cronista, venni coinvolto. E per dare testimonianza attendibile che eviti in future stucchevoli giri di valzer sulle iniziative autentiche per la fondazione del premio.
L’idea cominciò ad avere solide radici nell’ambito della giunta comunale e toccò a uno dei suoi più tenaci sostenitori, l’assessore De Feo, il compito di darle veste concreta, di creare un affidabile gruppo di lavoro. Tra i giornalisti varesini che con i direttori Lodi e Miglierina avevano rilanciato La Prealpina, era molto apprezzato Max Lodi che, laureato in lettere e appassionato cultore della materia, aveva allacciato positivi e nuovi rapporti con i protagonisti locali del mondo che lo affascinava. Max subito propose la novità assoluta: riconoscimento del valore, notevolissimo, di Chiara anche con un premio nazionale dedicato in particolare ai racconti, altra specialità del romanziere luinese che aveva messo radici a Varese e, come sfondo prediletto delle sue opere, aveva scelto personaggi, comunità, ambienti della nostra terra.
Max suggerì il mio nome come collaboratore organizzativo e infatti la giuria “popolare” venne composta da lettori della nostra biblioteca, dai critici letterari di una settantina di giornali nazionali, da cittadini notoriamente appassionati di letteratura e da otto consiglieri comunali in rappresentanza dei partiti politici.
Fu un successo sino all’avvento della Lega che proclamò la cacciata da Varese dei magistrati meridionali e dei giurati “terroni” dal Premio Chiara.
Era una giuria letteraria sciccosa: Michele Prisco, napoletano, con sue opere era già nei testi nazionali di letteratura; Raffaele Nigro, direttore RAI a Bari, era un lucano già vincente allora come scrittore, Gino Montesanto, veneto aveva scoperto o proposto eccellenti scrittori, poi c’era la regina, genovese, Nanda Pivano che aveva anche contribuito a far conoscere con le sue splendide traduzioni Hemingway agli italiani. Dimissioni in massa dei vertici del premio Chiara che in poco tempo avendo trovato sensibilità e cultura in un grande gaviratese come Oldrini, salpò verso altro lidi e ottenne consensi e fama anche grazie allo sviluppo di nuove azzeccate iniziative.
Le imprese della Lega non vennero apprezzate nemmeno a Varese e scatenarono uomini di cultura e umoristi, tra i quali il nostro Morgione che finse di difendere i lumbard con una celebre battuta: “Noi razzisti? Sono loro che sono negri!”. Luigi Bombaglio, fascista rispettato anche a sinistra, scrisse una poesiola in dialetto, ma con un finale in italiano. Raccontò Bombaglio l’orgoglio di un leghista: “Sono morto, chissenefrega, sono morto per la Lega! Ero dal medico per una trasfusione quando chiesi se il donatore fosse un terun. Avuta la conferma, rifiuto il mescolamento e muoio dissanguato”.
Bombaglio per il finale abbandonò il dialetto per l’italiano: “La morale in lingua. La morale bisogna dirla: nascere lombardo e morire pir…”
Risero anche parecchi leghisti intelligenti, con il tempo costoro si sarebbero fatti strada, ma continuarono a essere tributari della Lega dalle ambizioni nazionali, dimenticando così Varese. In un quarto di secolo per noi due soli risultati dovuti a interventi personali di Bossi e Maroni: un aiuto finanziario importante per lo sviluppo dell’Università e il raddoppio della bretella terminale dell’autostrada.
Oggi dopo l’arresto di un secondo sultano di Forza Italia i leghisti ne chiedono imperiosamente conto alla pattuglia superstite dell’armata berlusconiana. Come se non fosse stato leghista il primo clamoroso arresto della storia della Seconda Repubblica. Come se nulla sapessero degli annosi slalom forzisti su piste più o meno dorate di una politica che ha sempre tradito gli elettori. Almeno dalle nostre parti.
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