Rivolteremo quest’Europa come un calzino; tutti a casa: arriviamo noi e le cose cambiano da così a così. Basta con l’Europa che tutela solo i grandi gruppi finanziari e le grandi imprese, e basta con l’austerity: libertà libertà (per l’onestà c’è sempre tempo)…
I proclami dei cosiddetti partiti sovranisti o populisti (ma qualcuno li ha acutamente denominati ombelicali) in vista delle prossime elezioni europee contengono già in sé una contraddizione. Che ci va a fare un sovranista in Europa, se poi pensa soltanto ai suoi confini e ai suoi muri?
Dice: va in Europa per mettere il cappello sulla propria “indipendenza”: fare crescere il deficit senza controlli, spendere e spandere. Ma disporre dei denari comuni. A quelli non si rinuncia. Di un’uscita (dall’Europa e dall’Euro) ormai si parla sempre meno, anzi non se ne parla affatto. La lezione della Brexit e del casino che ne è seguito sono lì da vedere, a mo’ d’esempio.
Ancora. S’è affermato che queste imminenti elezioni europee saranno le più “politiche” di sempre, cioè nella realtà dovrebbero dare un’impronta nuova, diversa, concreta a un’istituzione che finora s’è dimostrata essere soltanto un carrozzone di personaggi pronti a tutto e capaci di nulla.
Per molti deputati, i nostri in primis, infatti s’è trattato quasi sempre di una sinecura, di uno stipendio oltre che congruo solo a fronte di un impegno di chiacchiere; per alcuni una lista di attesa a riprendere il posto che loro compete nella nazione sovrana, oppure un seggio di compensazione di trombature altrove avvenute.
Elezioni politiche dunque? Forse. Ma l’impressione che se ne ricava è appunto quella secondo cui la dicitura politica sia considerata solo da un punto di vista interno e nazionale, una specie di prova del nove della consistenza e della veridicità dei sondaggi, e nel caso di procedere a provvedimenti e a decisioni che possano addirittura far cadere il governo Cinquestelle-Lega.
Perché i grandi temi di cui si dovrebbe trattare in Europa – a parte i proclami – sono lasciati nel cassetto: nulla si dice sulle differenze del costo di lavoro nei diversi Paesi che fanno parte dell’Unione (posto che, da sempre, sarebbe stato più utile approntare due gironi di appartenenza); nulla dei diversi trattamenti fiscali e delle politiche estere; nulla di un fenomeno che è ormai sotto gli occhi di tutti: le migrazioni interne dai Paesi più deboli dell’Unione verso quelli più ricchi in termini di centinaia di migliaia di giovani spesso laureati e bene preparati come tecnici. Mentre a prevalere sono invece le attenzioni (e le paure) delle migrazioni esterne, degli africani che conoscono abbastanza l’Europa per esserne stati a suo tempo sfruttati e spremuti come limoni.
Una cosa singolare, infine, è per esempio quella che vede il nostro Paese, l’Italia, tra i più bersagliati delle migrazioni anche per la sua posizione geografica, ricercare alleati non tanto tra quei Paesi europei che dovrebbero vivere il nostro stesso problema, e dare una mano nel caso di necessità, ma tra coloro per i quali quelle migrazioni esterne hanno un peso diverso, così da erigere barriere tali da non fare passare nemmeno una mosca.
L’Europa come casa comune, e quindi anche come una casa con gli stessi interessi, l’Europa che dopo la seconda guerra mondiale assicurò la pace e una ripresa a Paesi soli nella sconfitta, come il nostro, è sparita dal ricordo.
Ma il fatto è che l’Italia sola era e sola, probabilmente, resterà, sempreché qualcuno non abbia già deciso di andare a “battere cassa” verso altri amici (la Cina? la Russia), i quali se interverranno non lo faranno certo per puro spirito di amicizia e di solidarietà.
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