Secondo un luogo comune un conto è stare all’opposizione e un altro al governo. L’opposizione garantisce una rendita di posizione, il governo grava di responsabilità. Questo distinguo non vale per i populisti. Il populista di governo è sempre all’opposizione di qualcosa: Maduro accusa l’imperialismo americano di affamare il popolo venezuelano con il calo del prezzo del petrolio; i grilloleghisti equiparano le ONG ad associazioni a delinquere complici dei trafficanti libici… Spesso il populista di governo esibisce qualche oppositore di circostanza, testimonial che certifica la “democrazia” interna al partito (è il ruolo attoriale assegnato a Fico nel gioco delle parti dentro il M5S). La responsabilità dei propri fallimenti è sempre altrui: tutti hanno un gufo sulla spalla. Anche la responsabilità può essere minore rispetto ai governi non populisti: quota cento, flat tax, reddito di cittadinanza e altri sperperi aumentano il debito pubblico in un paese in recessione, ma si corre lo stesso a testa bassa contro il muro.
Per Müller un’amministrazione populista ha quattro caratteristiche: tenta di colonizzare l’apparato statale; compra il consenso popolare con leggi clientelari di tipo discriminatorio (voi sì/voi no); cerca in modo sistematico di comprimere o svuotare la società civile; quando può disgrega il temuto esercizio del pensiero critico. Tutti i populisti tirano l’elastico sin dove possono per raggiungere questi obiettivi. Ma nessuno, nei paesi UE e negli Stati Uniti, vuole affrontare i costi, interni e internazionali, di un aperto e compiuto autoritarismo.
La discriminazione legalizzata offre benefici a particolari categorie che nella narrazione populista rappresentano l’identità della nazione (in Ungheria una famiglia numerosa è privilegiata perché rappresenta la “cultura cristiana nazionale”). Siccome il popolo non esiste a priori, la politica populista lo crea a propria immagine e somiglianza con strategie di inclusione e di esclusione. Il clientelismo reca con sé una dilagante corruzione, ma la presa dei populisti non ne è scalfita. L’opinione pubblica che crede alle loro narrazioni si piega alla logica dello scambio; finché la complicità reciproca remunera (ad esempio nello scambio tra distribuzione e accaparramento delle risorse messe a disposizione dalla UE in Europa orientale), protesteranno solo minoranze marginali, informate e inascoltate.
La delega conferita dall’infallibile sovranità popolare ai governi populisti li autorizza a sgravarsi il più possibile della mediazione dei corpi intermedi, dei freni, dei bilanciamenti e delle procedure di garanzia. A loro dire questo sgravio, con l’implicita trasformazione delle regole del gioco, segna il passaggio dalla “falsa” alla “vera democrazia”.
Lo schema di gioco prevede alcune varianti tattiche: l’appello diretto alle masse disorganizzate; la teatralizzazione dell’ascolto diretto («Gente – ebbe a dire Grillo –, funziona così: voi mi tenete al corrente e io farò da cassa di risonanza»); la campagna elettorale perpetua; l’ubiquità del leader, circondato da sostenitori osannanti, che inscena – anche con opportuni travestimenti e gesti contrari all’etichetta e alla buona educazione – la sua immediata prossimità a qualcuno (salvo al dunque sparire, come sa chi risiede nell’area del ponte Morandi); la loro epifania in luoghi evocativi sul piano simbolico, come il balcone presidenziale; il ricorso compulsivo a tutti i canali mediatici; il decisionismo invocato per snellire i processi deliberativi in modo da liberare il governo dalle mediazioni istituzionali, dalle procedure e dalle pastoie burocratiche; la scelta di far prevalere la forza della maggioranza se sono in ballo i diritti civili e culturali; i goffi riti di trasparenza inscenati per certificare il rapporto verace tra i capi populisti e la base. A volte, per segnalare la volontà di cambiare le regole del gioco, al governante populista basta trasgredire un protocollo o una procedura. Il suo agire quotidiano è mosso da un’irrefrenabile ansia realizzativa: per tutto vi è una ricetta pronta a portata di mano; il cambiamento promesso diviene un valore in sé che si autocertifica e autorealizza con facilità.
La creazione di vincoli faziosi mira a trasformare le costituzioni in strumenti non per tutelare il pluralismo ma per eliminarlo. Tra questi vincoli spicca la soppressione della libertà di mandato, descritta come antidemocratica. «È invece vero il contrario; non a caso le costituzioni democratiche optano per un mandato libero, non imperativo». Il vincolo è uno strumento di sottomissione: rende superfluo il voto parlamentare; inibisce il dissenso; subordina gli eletti alla suprema volontà del leader e dei centri decisionali che lo attorniano.
Il populista di governo è un teatrante, pratica un trasformismo camaleontico e proteiforme, abdica in men che non si dica ai “valori” non negoziabili pomposamente enunciati prima di salire al potere, fa tutto e il contrario di tutto (prima respinge le Olimpiadi per prevenire la corruzione e poi, senza fare una piega, si fa beccare con le mani nella marmellata per lo stadio della Roma), si rivela infiltrabile, abbandona il primitivo spirito robespierriano e giustizialista per agire con cinismo giustificandosi volta a volta, secondo le occasioni, pescando nella galassia dei nemici esterni e interni (la stampa “bugiarda”, gli intellettuali, i “radical chic”, gli attrattori del pubblico odio come Soros, Macron, Boldrini, Saviano…). Qualunque tigre possa rendere voti può essere cavalcata senza pudore: oggi si è antisionisti, domani contro i palestinesi; oggi filorussi, domani filocinesi, dopodomani ferrei atlantisti; oggi in guerra con la Francia, domani amici fraterni e indissolubili. Il demagogo piega la retorica come un giunco e la tira in ogni direzione.
La difesa e la rigenerazione dell’identità nazionale, l’anteposizione degli interessi patriottici al mondo globalizzato e il ruolo delle comunità locali e territoriali nell’affermare la primazia e la grandezza della nazione, è la grande barra che orienta la propaganda del populismo di governo. La politica estera è un sistema talmente fitto di interdipendenze che inibisce ogni pretesa sovranista e suprematista; ma il populista – un teatrante che recita per il suo pubblico – sa che le narrazioni sono più efficaci degli atti concreti per dare struttura al consenso. Il populista di governo costruisce di continuo confini netti che delimitano qualcosa. Non si tratta solo di confini territoriali, barriere etniche e differenze culturali, ma anche di confini economici e sociali (la flat tax vale per i soli lavoratori autonomi e non per gli altri; le tutele contrattuali scompaiono, come in Ungheria; il recupero delle pensioni sull’inflazione si ferma a 1.530 euro lordi, perché il rapporto tra il limite di povertà e quello del benessere è fissato dal governo nella proporzione 1:3…).
L’esito è paradossale. «Il populismo al potere instaura, rafforza o offre un’altra versione di quella stessa esclusione e usurpazione dello Stato a cui più si oppone nei confronti di quell’establishment in carica al quale intende sostituirsi». Distinguendosi da Mounk, Müller preferisce non chiamare i regimi populisti “democrazie illiberali”, una terminologia corrente durante la sbronza di illusioni circa l’anelito globale del mondo alla democrazia che contagiò la politica occidentale tra il 1989 e le “primavere arabe”. «È la stessa democrazia ad essere danneggiata dal populismo», tutta intera. Conviene così parlare di “democrazia imperfetta”, o meglio di “democrazia deteriorata”, bisognosa di riparazioni, rammendi e riforme da parte dei democratici che avversano il populismo. Contrastare il populismo non è semplice, ma la democrazia dispone ancora di risorse per riprendersi e venire curata. Non siamo precipitati, come vorrebbe un critico radicale come Wolfgang Streek, in una “democrazia di facciata” e nemmeno, come dicono i cantori delle gesta di Orbán, in una “democrazia plebea”. Il punto di non ritorno si ha se l’esecutivo in mano ai populisti controlla la magistratura al punto da rendersene indipendente. In quel caso «la costituzione cessa di essere un ordinamento per la politica ed è trattata da strumento puramente fazioso per appropriarsi del sistema di governo». Ma neppure in Ungheria, dove questo strappo è avvenuto, le speranze sono morte: nelle piazze l’opposizione è attiva; e gli Stati membri della UE avrebbero, se volessero, degli strumenti di pressione tali da prosciugare il consenso attorno all’autocrate e facilitare il ritorno alla democrazia.
Perché il rammendo riformatore possa attuarsi, occorre prendere atto del grave deficit di diritti sociali, che spinge i gruppi più deboli sul piano economico e sociale a ritirarsi dai processi politici perché ritengono che nessuno possa più rappresentare i loro interessi. Ha scritto David Ost: «È vero, oggi tante persone non si battono per la democrazia, ma semplicemente perché sentono che questa, confezionata in un involucro neoliberale, non si batte per loro». I giovani, in particolare, sono meno legati alla democrazia non tanto perché la brutale dequalificazione degli studi non aiuta a capirla, quanto perché si mostra poco attraente e insensibile all’equità.
In conclusione, le forze democratiche, conservatrici o riformatrici che siano, devono dare risposte convincenti alle difficoltà in cui versa in quest’epoca la rappresentanza. A partire dai fondamenti. «Quali sono i criteri per appartenere al sistema politico? Per quale motivo esattamente vale la pena di preservare il pluralismo? E come è possibile affrontare le preoccupazioni degli elettori populisti intesi come cittadini liberi e uguali, non come casi patologici di uomini e donne spinti da frustrazione, rabbia e risentimento?».
(fine nona puntata – Le prime otto sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19del 30.03.19 del 06/04/19 del 13.04.19 del 20.04.19 e del 04.05.19)
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