Un conto è amare il proprio popolo e difenderne gli usi e i costumi, un altro è lasciare che questo attaccamento diventi odio ed esclusione degli altri, permettere che si trasformi in nazionalismo che alza muri e suscita razzismo e antisemitismo. Le parole pronunciate dal papa nell’udienza della Pontificia Accademia di scienze naturali fanno riflettere alla vigilia del voto europeo. Francesco le formula nei giorni in cui il vicepremier Matteo Salvini si fa immortalare con il primo ministro Viktor Orbàn davanti ai reticolati che sbarrano il passo ai profughi sul confine ungherese. I giornali lo hanno chiamato il “patto del filo spinato”.
Salvini vuole distribuire fra tutte le nazioni d’Europa la responsabilità di accogliere i migranti, ma poi si allea con l’uomo che cocciutamente si rifiuta di farlo. A rigore di logica Orbàn è il peggior nemico di un’Europa unita che si accolla insieme il peso dell’esodo dal Medioriente. Invece di corrergli dietro, il vicepremier italiano dovrebbe cercare alleati tra chi approva la divisione dei compiti. Quando si vedono gabbie e fili spinati ritornano alla mente immagini drammatiche, il muro di Berlino, il lager di Auschwitz, il muro alzato dal presidente americano Donald Trump al confine con il Messico, i figli di migranti separati dai genitori alla frontiera del Texas.
Si riaffacciano alla vista i reticolati di Guantanamo sarcasticamente ribattezzata Camp Justice e i prigionieri curdi fatti sfilare in gabbia dall’Isis a Kirkurk. È questa l’Europa che vogliamo? Sono queste le idee che renderanno il futuro migliore? Il voto del 26 maggio è un’occasione immediata per respingere la politica dei muri e dei fili spinati. Spetta a tutto il continente farsi carico del problema dei profughi distribuendone la responsabilità tra le varie nazioni. Dunque bisogna irrobustire l’Europa e non renderla più debole votando chi si chiama fuori.
La possibilità di andare nella giusta direzione è legata al voto del 26 maggio e alla bocciatura di chi predica il ritorno ad anacronistiche formule di egoismo sovranista e di chiusura a doppia mandata entro i propri confini. Questa logica ha portato a due guerre mondiali nel secolo scorso. Bisogna unirsi, non dividersi. Occorre ritornare alla spirito del 1951 quando fu creata la Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca) con la quale i sei Paesi fondatori, tra cui l’Italia, misero in comune le fonti di energia che erano state una delle cause dei conflitti che insanguinarono l’Europa. La Ceca fu l’istituzione che precorse la nascita della Comunità e dell’Unione Europea.
Oltre settant’anni di pace dovrebbero indicarci da che parte stare. Oggi i sondaggi dicono che l’ondivaga fiducia dei cittadini è tornata a crescere. Il 45% degli italiani è favorevole a stare nella Ue contro il 24% degli euroscettici (fonte Ipsos – Corriere della Sera, 27 aprile 2019). “L’indice di fiducia calcolato escludendo chi non si esprime – afferma Nando Pagnoncelli – si attesta a 40 e fa segnare una crescita (+2) rispetto al biennio 2017-2018”. Soltanto un’Europa solida e unita può gestire il carico di problemi urgenti e comuni come l’immigrazione, la politica energetica e ambientale, il lavoro, il fisco, la sicurezza, la politica estera, la protezione sociale.
Ma c’è un problema da superare. Per arrivare a un’Europa che sia in grado di decidere per tutti coloro che ne fanno parte e di interloquire alla pari con le superpotenze mondiali Cina, Usa e Russia, occorre paradossalmente meno sovranità dei Paesi membri. Il principio dell’Europa delle Patrie caro a de Gaulle che tuttora ispira il nazionalismo dei sovranisti, non consente che si realizzi uno Stato federale e veramente super-nazionale. Concede troppo spazio al potere di veto dei singoli e pretende l’unanimità nelle decisioni. L’Unione europea è a tutt’oggi l’unione degli Stati membri e ne ha i difetti. Che forse si potranno superare se la Commissione sarà eletta dal Parlamento e non dagli Stati nazionali e avrà un esercito comune.
You must be logged in to post a comment Login