Perché Di Maio va giù pesante contro Salvini? È solo guerriglia da campagna elettorale europea oppure certezza di contare su un altro forno, nel caso d’abbandono di quello leghista? Delle due, sembra più attendibile la seconda ipotesi. Ovvero: se all’indomani del voto per Strasburgo la rappattumata coalizione si differenziasse, rendendo probabile un anticipato ricorso alle urne, i Cinquestelle immaginano uno scenario assai diverso rispetto alla primavera dell’anno scorso. Non un’intesa bis col Carroccio, ma un trattabile accordo col Pd. Ciò che una sua parte auspicava all’epoca dello sbandierato cambiamento, Renzi dissenziente.
Attenzione, però. Ci sono Cinquestelle e Cinquestelle: 1) l’ala governativa/trasformista, capeggiata dal vicepremier e ministro dello Sviluppo economico, che infilando errori a ripetizione ha ridotto l’appeal del partito, come attestano i disastrosi risultati d’una fila di consultazioni amministrative; 2) l’ala durista/purista, che s’incarna nel presidente della Camera Fico, da sempre ipercritica verso il contratto di governo stipulato con la Lega, e incline ad apprezzare molte delle posizioni espresse dai Democrats.
Attenzione, però, anche in tal caso. Ci sono Pd e Pd: 1) il Pd della precedente gestione, desideroso d’assistere allo sfascio dell’esecutivo gialloverde sgranocchiando pop corn come al cinema; 2) il Pd dell’attuale corso, propenso a scelte diverse/opposte. Lo dimostra il libro fresco di stampa del segretario Zingaretti, intitolato “Piazza grande”. È una raccolta dei suoi ultimi discorsi, postillata da un ricamo finale con aperture anziché chiusure all’M5S che fosse capace di dismettere una classe dirigente e nominarne un’altra. Scrive Zingaretti: “I Cinquestelle sono destinati a scomporsi. I loro elettori vireranno un po’ a destra un po’ verso l’astensionismo e un po’ saranno costretti a rivolgere il loro sguardo verso di noi”. Cioè: spera di rubar voti a Di Maio. E d’avviare, su posizioni di parità, un dialogo con i frondisti dell’odierno leader pentastellato. In che modo? “Passando dalla propaganda autocelebrativa, che è durata troppo tempo, a una battaglia ideale e culturale”.
È il rovesciamento del renzismo, tanto che reddito di cittadinanza e salario minimo vengono giudicati obiettivi ragionevoli, se non primari, da raggiungere, pur attraverso un percorso diverso dalla traccia indicata sinora dal grillismo. Insomma: concessione di credito a una politica per davvero popolare e non furbescamente populistica.
È ovvio che Zingaretti -obbligato dalla prudenza- mandi solo cenni criptici a due settimane dalla chiamata europea, tuttavia bastano a far intendere quale sia l’orizzonte cui egli guarda. Il Paese azzoppato dalla crisi economica -ultimo dell’Ue per investimenti, produttività, crescita con il Pil 2019 dato allo 0,1 per cento, gli investimenti a meno 0,3 e il debito pubblico in moltiplicazione- deve preoccupare chiunque abbia senso di responsabilità. Idem il tonfo di scoramento causato dalla scoperta d’un nuovo esercito di corrotti e corruttori. Ci vorranno alleanze inedite e solide per reagire allo sfascio e affrontare un autunno altro che caldo. Zingaretti sembra aver già individuato qual è la migliore o la meno peggiore: la “Piazza grande” che sia sbocco d’una drammatica strettoia.
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