Ebbene sì: qualche giorno dopo aver composto il mio inno personale alla bellezza della memoria, ecco che un cervello col fiatone e le sinapsi usurate – il mio – mi cancellano l’appuntamento centrale della giornata, con annessa figuraccia.
Del resto, non vi capita mai di perdervi un nome, oppure di canticchiare un motivo e fare cilecca sulle parole? Inventandole poi di sana pianta pur di salvare la rima? A casa nostra era normale, anzi quasi un obbligo etico, inserire vocaboli a casaccio pur di completare una esibizione, soprattutto quando l’accompagnatore al piano (papà) tirava via dritto senza un minimo di pazienza.
Così il famoso tango anteguerra “Sonia”, iniziato con un romantico “Sonia Sonia, tutto finisce e muore… “ poteva tranquillamente finire con “Sonia Sonia… l’ha detto anche il dottore!”.
Se la grande Mina sarebbe inorridita a sentire il suo “E se domani” riveduto e corretto con l’aggiunta di tazze di tè, i Tullipan oltre a parlare d’amore, “fanno dolce il cuore”, e a Shangai Lil si chiedeva Dove dormirà dove mangerà ; e non parliamo delle canzoni in francese, a partire da “Les feuilles mortes, et ouvrir les portes” per finire con “ et si tu ne manges pas, si tu ne parles pas, je vois la vie en rose!”.
Del resto, succede anche a Morandi.
Ma pure le poesie, a volta, risalgono alla mente disarticolate; specialmente quando l’artista mette un punto a metà verso, cambiando pensiero e argomento, ma a te che la stai imparando a memoria e devi tenere il ritmo della metrica, ‘sto punto impiccia proprio, e quindi lo salti a piè pari.
Famosissimo nella nostra famiglia il verso “terra terra sen va sul fumaiolo”, che cadeva a fagiolo se si discorreva di una persona rozza e maleducata – terra terra, appunto -: dove certamente il fumaiolo in questione veniva dopo un rotondissimo punto – e una conseguente doverosa pausa – che si erano entrambi persi… nel vento. Oppure “nacqui ciliegio cento volte e cento” che, intercalato dal black out sul verso seguente, finiva con “dopo lunga tenzon strappommi il vento”, o anche “tuona il camoscio salta la valanga”, o questo finale scompaginato da chissà quale filastrocca, in tedesco per di più, che tornava a galla ogniqualvolta si parlasse di cani: “..und der dakel Friedolin”.
Potere della parola! Che anche quando è sbagliata, fuori posto, inverosimile, ha una sostanza viva dentro di sé, capace di creare e ricreare – quasi riflesso di ben altra efficace Parola – realtà e affetti.
You must be logged in to post a comment Login