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Opinioni

IL MULINO, LA FORZA

ROBERTO MOLINARI - 03/05/2019

Qualche giorno fa mi hanno letto una dichiarazione via Facebook di un simpatico consigliere comunale di opposizione che, tra le altre definizioni date prima alla Pasqua e al 25 aprile, dichiarava il 1° maggio come la festa dei comunisti.

Ora, non sono qui certamente a commentare o a sottolineare la scarsa sensibilità del noto consigliere rispetto al mondo cattolico e ai credenti in generale nel definire la Santa Pasqua come la “festa delle pasticcerie”, né mi metterei in particolare tensione nel leggere che, sempre il noto simpatico consigliere, definisce il 25 Aprile la festa dell’ipocrisia. Si sa come vanno queste cose. Nella ricerca disperata di attenzione da parte della stampa e nel vuoto dei contenuti si dimenticano presto, non solo i libri di storia, cosa che chi vuol fare politica dovrebbe quanto meno provare a leggere se non a studiare, almeno per avere un pensiero, ma, soprattutto, si lascia da parte il rispetto per i sentimenti religiosi dei molti, sempre dovuto e, ancora di più, necessario nei momenti in cui i riti collettivi si manifestano non per ripetizione di una tradizione, ma come elemento fondativo da oltre duemila anni dell’incontro del popolo di Dio con il Cristo.

Non mi preoccuperei particolarmente della coerenza o no di chi professa come “fede” “Dio, patria e famiglia” salvo poi ricondurre il tutto ad un semplice amo elettorale per raccogliere qualche voto. Non ho particolare intenzione di polemizzare con chi mi sta, in ogni caso, simpatico malgrado alcune cadute di stile, dovute più all’età che ad altro.

No, molto più laicamente vorrei provare a riflettere sul 1° Maggio, non certo come festa dei comunisti che, nella banalità della frase, sempre dell’amico consigliere di opposizione, vorrebbe quasi dire che, allora, solo i comunisti sono lavoratori, perché tutti gli altri chissà che sono, ma riflettere penso sia oggi più che mai stimolante andare oltre le battute dei 144 caratteri e pensare a quale significato si può ancora dare a questa festa in una epoca in cui l’intero mondo del lavoro è in trasformazione.

Il rischio di trasformare una ricorrenza come quella del 1° Maggio in qualche cosa che si ripete, che riproduce stanchi riti o autocelebrazione sindacali c’è sempre.

È un rischio che si corre in ogni occasione e ogni anno. Eppure, eppure io penso che in questo 2019 la festa dei lavoratori possa assumere un significato diverso.

Non faccio qui il richiamo alla storia, alle origini di questa ricorrenza laica e alla sua importanza simbolica che deriva da una epoca in cui i diritti erano negati in forza di leggi e di autorità costituite.

Io penso che oggi, più che mai, questo 1° Maggio dovrebbe guardare al futuro, dovrebbe guardare alle sfide che riguardano non solo direttamente al mondo del lavoro e, di conseguenza ai lavoratori, ma anche a tutte le sovrastrutture della nostra società e del suo modello inclusivo così come costruito a partire dalla grande depressione degli anni ‘30.

Oggi il tema è il governo del cambiamento. Non è più solo la globalizzazione che non è stata accompagnata, che non ha visto delle risposte adeguate capaci di contenere la paura prodotta nella società liquida, ma è soprattutto altro. Le ferite inferte dai cambiamenti non avranno a che fare minimamente con quelle paragonabili oggi alla globalizzazione. Saranno ferite talmente profonde da provocare il ribaltamento se non la distruzione di quanto costruito fino ad ora e passato per i drammi del ‘900.

La nostra società e quindi anche il mondo del lavoro si troverà ad affrontare, soprattutto nel nostro Paese, tre problemi, tra gli altri, da far tremare chiunque.

L’invecchiamento della popolazione accompagnato dal calo demografico provocherà in generale nelle economie sviluppate un tasso di dipendenza tra chi lavora e chi è in pensione di uno a uno e questo porterà alla insostenibilità del sistema.

Secondo. La robotizzazione spinta e l’intelligenza artificiale domineranno i prossimi anni provocando la scomparsa di milioni di posti di lavoro tradizionali. Così le nuove professioni che si svilupperanno grazie a questa “quarta rivoluzione” non saranno in grado di coprire con una velocità sufficiente i posti di lavoro scomparsi e questo provocherà conflitti endemici e scontri sociali durissimi. Terzo ed effetto dei due problemi precedenti, si assisterà a un aumento esponenziale delle diseguaglianze con sempre più richieste sulle Istituzioni di interventi riparatori e conseguente rischio di crisi delle stesse per l’impossibilità di dare risposte soddisfacenti.

Questi scenari futuri pongono una domanda generale a cui il mondo del lavoro e i suoi rappresentanti non si possono sottrarre. Se, infatti, nei prossimi anni non saremo in grado di anticipare questi problemi e di trovare delle soluzioni efficaci (ora e non tra dieci, quindici anni) e quindi in grado di governare tutti i rischi connessi e collegati assisteremo anche alla crisi delle Istituzioni democratiche con conseguenze drammatiche.

Dunque la sfida al futuro non è più fatta solo di diritti da confermare, adeguare, innovare, ma anche cercare di capire come perseguire la coesione sociale a fronte di quella che si preannuncia come la più grande rivoluzione tecnologica che le società capitalistiche hanno affrontato dai tempi della prima rivoluzione industriale.

Su questi temi e su queste partite, il mondo del lavoro nella sua complessità organizzata non può chiamarsi fuori. Non è pensabile che la risposta arrivi o debba arrivare solo dalla politica. Occorre che tutti i corpi intermedi facciano la loro parte e che tutti siano messi nella condizione di poterla fare.

Nella elaborazione di idee, di proposte. Nella capacità di concordare percorsi con la politica e con le Istituzioni. E nella capacità di creare consenso e condivisione attorno alle possibili soluzioni. E non sto scrivendo della solita “concertazione sindacale”.

Personalmente non credo alle soluzioni conflittuali, antagoniste. Sanno di vecchio sindacalismo, ma anche di vecchia politica. Così come non credo che tutto possa trovare risposta in una “Repubblica fondata sul sussidio garantito”, anche questa una risposta semplice e facile, una scorciatoia da imboccare nel breve, ma foriera di creazione di un “popolo” servo del nuovo potere che elargisce il sussidio e non crea le condizioni per il lavoro e per nuovi posti di lavoro, soluzione per l’affrancamento dalla povertà e per una risalita nella scala sociale, veri antidoti (questi ultimi due) all’egualitarismo e al parassitismo dei ceti dominanti, oligarchici e abituati alle rendite di posizione.

Su questa linea di confine io vedo la possibilità di un ruolo da protagonista del mondo del lavoro e delle sue rappresentanze organizzate rinnovate e capaci di riannodare i fili della rappresentanza con quelli della proposta e del governo del cambiamento.

Certo questo comporta l’avere anche un ceto sindacale rinnovato, rinnovato nelle idee, ma anche nelle strutture e nei quadri dirigenti. Comporta un rinnovato legame sociale con il mondo del lavoro, ma anche con il sociale in generale. Così come comporta la capacità di mettersi in gioco e di verificare più e più spesso il proprio consenso e l’essere organizzazioni maggiormente rappresentative in grado di intercettare il bisogno e di trasformarlo in proposta e in soluzione.

 Niente è facile e niente trova facili soluzioni nella post-modernità, ma occorre anche sperimentare vie nuove e il mondo del lavoro è quello che per primo risente dei venti di crisi da sempre, ma è anche quello che per primo si rimette in gioco per trovare delle soluzioni. È la vecchia storia del mondo, quando si alza il vento c’è chi costruisce un muro per ripararsi e chi, viceversa, costruisce un mulino per sfruttarne la forza. Si parte sempre da questo.

Roberto Molinari, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Varese

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