Il risultato delle elezioni in Spagna dimostra che esiste un argine al populismo. E che una sinistra con radici nella società può resistere a una destra che vi affonda le sue esche. Pedro Sanchez ha resuscitato il Partito socialista argomentando in concreto, senza lasciarsi prendere da tentazioni intellettualistiche e marcando il confine ideale/materiale tra progressisti e conservatori. È un riformatore sul serio, e difatti ha proposto: patrimoniale dell’1 per cento sulle rendite oltre i dieci milioni, Irpef locale maggiorata ai ricchi (+2% sui redditi oltre i 13 mila euro, +4% su quelli oltre i 300mila), aumento della tassa sulle transazioni finanziarie per le imprese con capitale sopra il miliardo, crescita di salario e pensioni minime, lotta all’evasione eccetera. I deboli lo hanno contraccambiato con la forza del consenso.
Una speranza per il Pd e i suoi alleati. La partita europea del 26 maggio non è perduta fin dall’avvio. Madrid ne testimonia la giocabilità, tanto più che in Italia le forze di governo sono spaccate come mai era accaduto dalla loro unione. L’indecoroso/artificiale spettacolo di divisioni speculative su ogni argomento, pur d’accattivarsi una parte dell’opinione pubblica, rischia di non procurare a M5S e Lega il vantaggio sperato. Secondo gli ultimi sondaggi il primo è dato in costante calo, la seconda ha iniziato ad arretrare: in molti si sono stufati della giornaliera manfrina inscenata da Di Maio e Salvini.
Resta però da vedere se il rifiuto a riaffidarsi alla confusa armata gialloverde si trasformerà automaticamente in suffragi all’opposizione. Stanchi d’una coppia di finti litiganti, gl’italiani che l’avevano scelta potrebbero decidere di non decidere, stando a casa e aggiungendosi alla moltitudine dei renitenti al voto. Delusi dai governi Gentiloni e Renzi, e idem da quello Conte, se la sentiranno d’azzardare una nuova scommessa?
È a questa larga fascia d’incerti che dovrà rivolgersi Zingaretti. Ma con un linguaggio semplice e con persuasività pratica, trasmettendo l’idea che il primo a credere in sé stesso e nella palingenesi del centrosinistra è lui. Dunque abolendo frasi di maniera, stantii tocchi di genericità, cenni di lacerazioni (perché seguitano ad essercene, di simili cenni) dentro l’intesa antisovranista. Il Pd s’è fatto assai male da solo negli ultimi anni, quando la sua minoranza condusse -prima e più che i leader d’altri partiti- la guerra a Renzi. Risultato: gli scissionisti dei Democrats finiti a ramengo e l’Italia consegnata a Salvini, scaltro ad esercitare un’egemonia mortifera su Di Maio. Se finalmente consapevole dello scempio autoinflittosi e capace d’un finale ragionevole di campagna elettorale, Zingaretti avrà modo di cogliere un successo non certo eguale a quello di Sanchez, però d’una qualche somiglianza senz’altro sì.
Circola tanta voglia di serietà, misura, realismo. Ma bisogna saper tradurre lo sfinimento da slogan, selfie e cazzeggi assortiti in una mobilitazione popolare non mossa soltanto da obiezioni a chi oggi detiene il potere, ma da proposte fondate e praticabili di contropotere. Valori lasciati cadere in disuso, se non spinti alla rottamazione, sono lì da recuperare e valorizzare. Una parte d’Italia aspira a un suo “Pedro adelante con juicio”, purché Pedro si dia una mossa: il trionfo alle primarie del Pd non solo glielo permette. Glielo impone.
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