Le “braccia” italiane impiegate nelle fabbriche tedesche, quando si stava avvicinando il durissimo inverno 1944 sembravano sufficienti al punto che l’efferato ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana Guido Buffarini Guidi (e il più filo germanico) con un telegramma alla Prefettura di Varese l’11 novembre 1944 aveva fatto sapere che non era più il caso – bontà sua – “di organizzare dei rastrellamenti indiscriminati di cittadini italiani o prelevamenti di singoli per inviarli al lavoro sia nel territorio della Repubblica sia nel territorio del Reich” semmai valutando soltanto le richieste volontarie che pure non mancavano, una vera trappola propagandistica che avrebbe ingoiato migliaia di italiani in cerca di un pezzo di pane.
Era sembrata una salutare boccata di ossigeno dopo le numerose operazioni poliziesche condotte in provincia dalla GNR e dalla brigata nera, prima su tutte quella compiuta il 18 maggio a Busto Arsizio ad opera del “ras” locale Sandro Mazzeranghi che aveva provocato l’arresto e la deportazione di almeno una cinquantina di persone fermate per strada o nei locali pubblici, case di tolleranza e cinema compresi, qualificate nei rapporti “vagabondi abituali, sbandati, farabutti congeniti, amorali professionali, giocatori d’azzardo, mezzi sangue, oziosi, trafficanti, disoccupati e comunisti (sic)”.
Restavano in vita solo “le precettazioni per lavori urgenti di tipo militare” ai fini della difesa del territorio nazionale, cosa che nel Varesotto si riferiva in genere ai terrapieni aereoportuali di Malpensa, appannaggio della specializzata Organizzazione Todt.
Ma il 6 dicembre, meno di un mese dopo dal messaggio di Buffarini Guidi, era giunto il contrordine del Comando Militare Germanico in Italia, a confermare la sudditanza della Repubblica del duce, autentico stato-ostaggio dei nazisti.
Il maggiore Anton Lebherz, comandante tedesco della Piazza di Varese, aveva infatti informato il Capo della Provincia Enzo Savorgnan di Brazzà (che il settembre precedente a Reggio Emilia aveva ordinato la fucilazione dei sette fratelli Cervi) che i rastrellamenti dovevano considerarsi ripristinati “attraverso il controllo indiscriminato di tutti i cittadini”.
Tornava il terrore. La Guardia del Lavoro, un organismo della GNR, avrebbe ripreso la caccia ai renitenti al lavoro obbligatorio, ai disertori, ai partigiani, ai collaboratori della Resistenza, affidando poi la loro sorte ad una Commissione prefettizia “Italia-Germania” con sede a Villa Recalcati. Questa, composta dal tenente Karl Pfaff del Militar Kommandantur 1016 del Collegio Macchi, dall’ispettore Karl Kurzeja della GBA, un ufficio di collegamento fra le autorità italiane e tedesche nel campo del lavoro, dal capitan Gianni Dall’Ora della GNR del Lavoro (fucilato durante l’insurrezione) e dal dottor Carlo Rizzi, un funzionario della Prefettura di Varese che aveva il compito di rendere più omogenee le fasi istruttorie a carico degli “indiziati”, evitando lungaggini burocratiche. La Commissione non aveva perso tempo dando il via agli interrogatori che si erano conclusi in gran parte con la deportazione:
La prima riunione processuale, in un clima di vera e propria tragedia, con la RSI barcollante sotto i colpi della Resistenza varesina in via di ripresa dopo il terribile mese di ottobre segnato dal sangue di diciannove combattenti fra cui Walter Marcobi, il comandante della 121a brigata Garibaldi d’Assalto GAP “Gastone Sozzi”, si era tenuta l’11 dicembre 1944. Interrogate dieci persone fermate dalla GNR del Lavoro sui treni in servizio fra Varese, Luino e Busto Arsizio. Cinque sono selezionate per la Germania senza apparenti colpe gravi.
Vittorio Croce, trentasei anni, di Malnate, è il primo inquisito. Dialogo all’osso. Croce a domanda risponde: “Lavoro alla ditta Bareggi Virginio di Milano e faccio il suolino. Sto lavorando a Luino per la mia ditta. Abito a Malnate in via Balilla. Ho solo questa carta di riconoscimento per le Ferrovie, senza timbri e per venire a Luino. Non mi è stata rilasciata altra carta”. Esito: “destinato in Germania”. Giovanni Segrada, quarantanove anni, di Luino, è il secondo a essere interrogato e la sorte è la stessa di Croce. Adr: “Commercio in terreni e fabbricati. Non ho nessuna tessera del Commissariato e non ho mai pagato tasse. Da circa un mese e mezzo ho il presente lasciapassare che mi è stato rilasciato dal signor Benzoni per dieci lire (tessera non valida). Convivo con una vedova da un anno e mezzo e mi sposerei nel gennaio prossimo”.
Il terzo fermato è Ernesto Tonin, un giovanotto che vive Varese e ha diciotto anni. Anche per lui l’esito del faccia a faccia è la Germania. Adr: “Lavoro presso la Conciaria di Valle Olona a Bosco Valtravaglia. È solo una settimana che lavoro. Ho il libretto di lavoro alla Conciaria che però ancora non mi ha rilasciato nessun nulla-osta. Sono del 1926 ma del secondo semestre”. I fascisti non sentono ragioni e obbediscono ai padroni. Andrea Badiali, cinquantun anni, milanese, è il quarto del turno: Adr: “Sono un cameriere d’albergo e sono stato in Germania con tale occupazione per due anni. Prima lavoravo sui vagoni-letto e ora lavoro la campagna di mia proprietà ad Agra. Ho tre pertiche. No, con tre pertiche non si può vivere e per questo andavo a Milano ai sindacati che mi avevano promesso un lavoro”. La Commissione era stata implacabile: giustificazioni peregrine, foglio di via per la Germania. La fila si era allungata con Marzio Ferrone, quarant’anni, di Agra, tagliaboschi da certo Ballinari.
Poi all’improvviso tre erano stati “graziati”: Bruno Nicolini, quarant’anni, di Luino, Francesco Travaglia, quarantotto anni di Gavirate, Giuseppe Mingalla, quarantaquattro anni, di Maccagno. Un altro interrogato Giuseppe Rimoldi, trentanove anni, di Luino, congedato dalla GNR per malattia, era stato inviato da medico per accertamenti. Alessandro Pagnocelli ha trentanove anni ed è di Varese. Sfugge alla Germania ma è “girato” a uno stabilimento Caproni in quel di Torbole. La sua difesa era stata disperata ma la Commissione non si era fatta impietosire: “Lavoro all’Avio Macchi come manovale ai forni-tempra ma guadagno di più a tagliare legna. Ho cinque bambini”. Chiaro che faccia borsa nera per sbarcare il lunario e viene punito ma la numerosa famiglia lo salva dal viaggio oltre confine.
Il 14 dicembre si era svolto il secondo turno d’udienza. Tre su cinque interrogati sono mandati in Germania, un quarto a Torbole alla Caproni, uno applicato in un Comune. Ettore Scorza ha trentun anni: “Abito a Milano, una volta facevo il parrucchiere, ora il fotografo in piazza Tribunale. Parecchie volte ho fatto la domanda di volontario ma senza esito. Faccio il fotografo perché sono stato riformato ma vedrò di fare qualcosa di più utile per l’avvenire”. Gli ridono in faccia e lo impacchettano per una fabbrica di Dusseldorf. Mario Nespoli, cinquant’anni, milanese. Gli va malissimo. Adr: “Faccio il tappezziere. La carta d’identità è scaduta e avrei dovuto rinnovarla oggi stesso. Sono a Varese diretto ad Azzate per trovare in collegio una nipote orfana”. Versione che non paga.
L’elenco è lungo. Da una parte la spietatezza, dall’altra la miseranda condizione di tanti italiani che galleggiano senza arte né parte e cercano di sfamarsi e sfamare la propria famiglia.
L’ernia salva in extremis Francesco Righetti, cinquantadue anni di Arbizzo che viene messo a disposizione dell’Ufficio di Collocamento. Il 15 dicembre la retata è notevole. Ventitre persone “pizzicate” sui tram e sui treni fra Laveno, Luino, Milano. È un’ecatombe. Giovanni Gallina, quarantadue anni, di Milano, si difende con le cartucce che ha. Poche e bagnate. “Il documento che esibisco non è timbrato – ammette – per dimenticanza. L’ho avuto da poco e non l’ho letto. Ho con mio fratello una macelleria e oggi devo andare a Caronno. È il sabato, il mio giorno libero Devo badare all’approvvigionamento”. La Commissione non gli crede affatto e pensa comunque che in negozio basti una persona per cui decide per la deportazione coatta. Otto cittadini sono fermati sul treno Milano-Varese. Uno è afflitto da un malanno alla spina dorsale e se la cava, tre vanno diretti in Germania, quattro alla Caproni. Luigi Orlando, quarantasei anni, napoletano, sfollato a Sangiano. Non ha documenti. Quello che appare valido non è vidimato. “Proprio oggi – sussurra – andavo alla Federazione per regolarizzarmi”.
La macchina che rastrella uomini per la Germania appare insaziabile. Ora stritola anche le “vittime di guerra”, coloro che sono costretti a lasciare le loro case con le abitazioni rase al suolo dalle bombe. L’ordine è di Buffarini Guidi che informa il 20 gennaio 1945 il Capo della Provincia Savorgnan. L’articolo 12 di un accordo italo-tedesco appare di un’assoluta barbarie: “i cittadini italiani che durante la guerra dovessero dalle Autorità Militari essere allontanati dalle loro residenze, verranno destinati al lavoro in Italia in Germania”. Sono esentati gli invalidi guerra, gli inabili alla visita medica, gli inferiori agli anni diciotto e superiori agli anni cinquantacinque. Le deportazioni non avranno fine. Moltissimi non torneranno a casa, uccisi dagli stenti o dalle bombe Alleate che infieriscono per mettere fine alla follia di Hitler.
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