Il futuro delle democrazie liberali preoccupa anche Müller. La sua analisi è però più sottile. Nonostante vaghe somiglianze, i populismi odierni nulla hanno a che fare con le forze totalitarie, autoritarie o illiberali. Elementi populisti hanno caratterizzato anche fascismi e comunismi, ma non ne erano il tratto distintivo. Chi evoca formule, contesti e dottrine del passato sbaglia mira e acchiappa fantasmi. La democrazia «deve affrontare un pericolo diverso da qualche ideologia generica che nega sistematicamente i principi democratici. La minaccia è il populismo – una forma svilita di democrazia che promette di tener fede ai massimi ideali democratici». Forze che si dicono democratiche operano da dentro il mondo democratico, ne usano il linguaggio e ne fanno strumento per promettere una democrazia nuova e sostanziale.
«Il populismo non è nulla di simile a una dottrina codificata, ma piuttosto un insieme di distinte rivendicazioni, provvisto di ciò che potremmo definire una logica interna». Il populismo è «un’ombra permanente della moderna democrazia rappresentativa, oltre che un pericolo costante. Essere consapevoli della sua natura può aiutarci a cogliere i tratti distintivi – e, in parte, anche i difetti – delle democrazie in cui effettivamente viviamo».
Molti insistono su alcune condizioni necessarie ma non sufficienti per comprendere il fenomeno populista. Chi lo giudica «una risposta democratica illiberale al liberalismo antidemocratico» non ne coglie il centro gravitazionale: non sempre chi respinge il pluralismo è un populista, mentre ogni populista respinge il pluralismo. Il cliché che riduce i populisti a forze ostili all’establishment e alle élites, che con calcolata e cinica maestria demagogica suscitano e sfruttano un ingorgo di emozioni distruttive come rabbia, frustrazione, risentimento, ansia e paura, si limita a una descrizione fenomenologica. Trascurando il ruolo delle argomentazioni razionali in democrazia, la psicologia sociale tratta gli elettori come soggetti emotivi e irresponsabili, dei pazienti da sottoporre a qualche terapia. I populisti non vogliono sostituire le costituzioni democratiche con altre apertamente illiberali, ma approfittano dei margini e degli interstizi consentiti per modificare a favore della loro ideologia gli assetti costituzionali e prima ancora la “costituzione materiale” che, secondo Mortati, affianca il dettato costituzionale vero e proprio con un fitto strato di interpretazioni, estensioni e procedure attuative. Sinora tra i paesi della UE solo in Ungheria le norme costituzionali sono state apertamente stravolte.
Se usiamo una coperta larga che va dalle nuove destre alle sinistre più impresentabili, etichetteremo come populisti Putin, Netanyahu, Bolsonaro, Erdoğan, Orbán, i fratelli Kaczynski, Salvini, Petry, Weidel, Wilders, Babis, Trump, Le Pen, Farage, Strache, Grillo, Puigdemont, Sanders, Iglesias, Tsipras, Obrador, Correa, Morales, Ortega, i fratelli Castro e Chávez/Maduro. Ma non è facile trovare tra costoro un solido denominatore comune. Le coperte che sorvolano sulla fondatezza di alcune istanze poste dai movimenti populisti o che insistono ad applicare loro la distinzione tra destra e sinistra, sono invece troppo strette. L’America Latina è il continente con le maggiori disuguaglianze. In passato le rivoluzioni peronista, castrista e sandinista in nome degli svantaggiati, dei deboli e degli esclusi, colpirono l’immaginario collettivo. Il ricorso alla leva dello stato autoritario retto da un partito monopolista e da satrapi inamovibili si limitò a Cuba e al Nicaragua, ma non si generalizzò. Di recente costituzioni autoritarie, talora liberticide, sono state introdotte dai bolivaristi in Venezuela, Ecuador e Bolivia. Altrove, come nel Brasile di Lula, l’obiettivo della giustizia sociale si è rivelato un enunciato strumentale per rastrellare consensi, risorse per gli oligarchi corrotti e appoggi esterni al ceto politico al potere, ma non ha compromesso i processi costituzionali.
Anche lo sforzo di individuare i sostenitori del populismo in alcuni strati socioeconomici è poco utile. Che elettori e attivisti delle forze populiste abbiano qualifiche produttive e livelli di istruzione più bassi, vivano in aree relativamente periferiche e siano in prevalenza maschi è un fatto; ma insistere su questo schema cancella l’evidenza decisiva, il carattere di “partiti pigliatutto” che costituisce l’arma vincente di tali forze. Lo schema che basa le fortune dei populisti sui “perdenti nei processi di modernizzazione” è empiricamente contraddittorio, e contraddetto (Sergio Costa, ad esempio, spiega queste fortune con i malesseri di masse acculturate schiacciate da élites delegittimate; ma è una tesi ancor più debole).
Il ricorso alla polarità amico-nemico non è prerogativa dei soli storyteller populisti. Anche governi autoritari o liberaldemocratici scaricano sugli avversari i loro errori o difetti. Ma i populisti equiparano sempre gli avversari a nemici: «Un avversario è qualcuno che vuoi battere. Un nemico è qualcuno che devi distruggere». Tutto è calcolato: si pratica il gioco duro perché la parte dei duri paga. Lo stesso vale per le loro semplificazioni rozze ma di facile comprensione e di larga accessibilità, o per la “teoria” secondo la quale il bene comune esiste ed è universalmente riconoscibile dalla volontà popolare (non importa se tale “volontà” sia espressa da quattro gatti infiltrabili, manipolabili e fanatizzati attraverso una piattaforma posseduta e gestita a titolo ereditario dall’“azionista di riferimento”).
In altri ambiti occorre distinguere due campi concettuali celati dietro il medesimo termine. Un esempio è il ricorso ai referendum. I populisti non li indicono per consultare i cittadini entro un ponderato percorso decisionale sorretto da giudizi empirici (“Mi è lecito divorziare?”, oppure “Consento a chi non crede nell’indissolubilità del matrimonio di poter divorziare?”), ma per far convalidare dal “popolo” ciò che il leader ha stabilito essere l’autentico interesse del “popolo”. Nelle mani dei populisti il referendum è un plebiscito confermativo (il primo ricorso a questo strumento si ebbe con Napoleone III).
Due elementi caratterizzano i populisti. La superiorità morale da loro vantata li legittima come rappresentanti di tutto il popolo. E il popolo, inteso come un solo corpo virtuoso e puro se non è deviato da politici corrotti e a lui estranei, ha un’unità identitaria che supera ogni pluralismo politico, culturale e sociale. Tutte le narrazioni del populismo cozzano con i dati elementari di realtà; ma, come nota Harari, le narrazioni ideologiche sono ben più convincenti dei dati reali. La rivendicazione “pars pro toto” (la parte – il partito – identificata con il tutto – il popolo nel suo insieme –) in apparenza avvicina i populismi ai regimi autoritari e totalitari. L’identificazione è però più blanda nei populismi, e dunque meno dannosa, perché si limita a volere per sé la rappresentanza esclusiva del popolo. I populisti esaltano il primato del potere esecutivo ma non il suo totale controllo sulla società, vogliono conquistare il governo ma non tutto il potere statale, come fu con lo stalinismo e il maoismo.
La condizione necessaria e sufficiente per le fortune del populismo consiste nella progressiva evanescenza di quella “forma-partito” che ha costituito l’ossatura e l’innervatura della democrazia. I partiti, oltre a svolgere un ruolo educativo e partecipativo, «mediavano tra una società pluralista e un sistema politico che prima o poi doveva produrre decisioni perentorie che non avrebbero soddisfatto tutti. Anche i “perdenti” dovevano dare il loro consenso, essendo comunque sicuri di avere buone possibilità di vincere un giorno. In parole povere, la democrazia è un sistema in cui si è consapevoli di poter perdere, ma anche che questo non sempre accade. I partiti formavano governi e opposizioni legittime; la loro stessa esistenza come “parti legittime” aveva un significato antipopulista». Oggi «né i partiti né i sistemi partitici adempiono più alle loro rispettive funzioni. Il populismo è forte dove i sistemi partitici sono deboli. La crisi dei partiti, specie in contesti di collasso sistemico (come nell’Italia del 1994 e del 2018), «ha un impatto sulla fattibilità della democrazia in quanto tale». In luogo del partito il “popolo” diventa una divinità mitologica che ha in sé un potere di investitura e di chiamata («Io non voglio candidarmi, ma è il popolo che me lo chiede!»: sono pronto a scommettere che sentiremo presto delle consimili “discese in campo”).
(fine settima puntata – Le prime cinque sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19 del 30.03.19 del 06/04/19 e del 13.04.19)
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