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Spettacoli

MITO DELLA FRONTIERA

BARBARA MAJORINO - 19/04/2019

westernLe emittenti televisive continuano periodicamente a mandare in onda cicli sul western dai titoli evocativi come “C’era una volta il western”, “La leggenda di John Wayne”, “Sotto il cielo del West” ecc.

Va detto che il piccolo schermo è inadatto a questo genere cinematografico e non lo valorizza negli ampi spazi paesaggistici, sovente girati in Cinemascope. Come buona parte di spettatori ho visto nella mia vita una quantità pressoché sterminata di film di questo genere. Da bambina, nei cinemini dell’oratorio non proiettavano che western, anche di serie B come “Il figlio di Kociss” o “Tomahawk scure di guerra”, forse perché non erano “vietati” e venivano considerati, a torto o a ragione, “film per tutta la famiglia”. Molti bambini di generazioni lontane dall’informatica, dai videogiochi e play station, giocavano a “indiani e cow boys” quasi che fosse la versione esotica di “guardie e ladri”.

 Sorge allora spontanea la domanda sui motivi per cui il genere western continua a protrarsi nel tempo con sempre nuovi autori che vi si cimentano. Abbiamo avuto western “classici” che hanno celebrato il Mito della Frontiera (quelli di John Ford), western psicologici (“Quel treno per Yuma”), western crepuscolari (“Le colline blu”), western revisionisti e filo-indianisti (“Piccolo grande uomo”, “Soldato blu”, “Un uomo chiamato cavallo” fino ad arrivare a “Balla coi lupi”), western dark dove, alla consueta solarità dei paesaggi western si contrappongono scenari cupi e notturni (“Gli spietati” di Clint Eastwood), spaghetti-western di sapore parodistico, iperrealista e a tratti fumettistico (l’esempio più famoso è Sergio Leone, ma ci furono suoi contemporanei meno fortunati autori di B-Movie a basso costo come Duccio Tessari), e infine western pulp e citazionisti (Tarantino).

L’argomento “western” è molto vasto (in alcuni casi è solo una cornice di drammi familiari e storie passionali come “Duello al sole” di King Vidor) e numerose sono le sue estensioni, varianti e propaggini che raggiungono i nostri giorni. Sono pertanto costretta a sceglierne un solo filone: quello della frontiera. Nella storia del West vengono narrate le vicende dei pionieri, degli esploratori (scout, trapper o mountain man), dei cowboy, dei banditi, degli sceriffi, dei militari, dei cercatori d’oro, dei commercianti di pelli e pellicce, dei missionari di chiese, di sètte e movimenti religiosi e naturalmente dei nativi americani nelle varie tribù.

 Le donne vi compaiono in veste di mogli, sorelle, fidanzate, cantanti, ballerine da saloon e prostitute magari in cerca di un riscatto sociale. Non c’è bisogno di sottolineare che il western è un genere prettamente maschile e a tratti persino misogino. Con le dovute eccezioni di Joan Crawford in “Johnny Guitar” di Nicholas Ray nel ruolo di Vienna, e Claudia Cardinale in “C’era una volta il West” di Sergio Leone nel ruolo di Jill Mc Bain, volitive protagoniste femminili di un genere “maschile”. Ma veniamo alla nozione di “frontiera”.

 Se in Europa, il termine frontiera, indica un confine tra due stati, in America, per usare le parole dello storico statunitense Frederick Jackson Turner “la frontiera non è una linea in cui fermarsi, ma un’area in cui entrare”. La frontiera è, dunque, in America, una regione recentemente abitata e in contatto con la “wilderness”. Gli insediamenti coloniali presenti in questa regione non avevano un confine rigido e impenetrabile, ma vi era uno spazio aperto e disponibile a nuovi altri insediamenti. Ciò che nella lingua europea aveva da sempre indicato un limite ed un ostacolo, in Usa diventò un invito alla colonizzazione di nuovi territori ancora selvaggi e inesplorati, e un concetto chiave per la comprensione dell’epica nazionale del nuovo continente.

 Il cinema più ancora della stessa letteratura, con la sua forza di suggestione ha fatto del western della frontiera, il suo mito fondativo nazionale e perfino nazionalistico. Nell’immaginario americano rappresentava anche un ideale: territori ancora da esplorare, dove la legge e l’ordine sociale non erano ancora arrivati e per poterli affermare bisognava lottare contro gli indiani e le aspre condizioni ambientali.

 Ma non solo. Non di rado nel western compare la lotta fra bande rivali di rancheros per la contesa di terre, uso delle acque, passaggio di capi di bestiame, diritto al pascolo (“Il grande Paese” di William Wyler, ad esempio). E le leggi faticavano ad affermarsi. Protagonista assoluto del western è il paesaggio che può essere verde e boschivo (Montana, Dakota, Wyoming, Alaska), ma anche arido e assolato come la Monument Valley tra lo Utah e l’Arizona dove John Ford girò “Ombre rosse” (1939) e “Sentieri selvaggi” (1956).

 A segnare la fine del classico eroe del western girato in esterni è lo stesso John Ford con quello che viene ritenuto da molti, il suo miglior film: “L’uomo che uccise Liberty Valance”(1961). In esso l’ambiente classico del western è rievocato da un lungo flash back, che mette a confronto l’uomo dell’Est, istruito, che non usa le pistole, interpretato da James Stewart, con il consueto ruvido cowboy interpretato da John Wayne. Sarà il secondo a salvare il primo, uccidendo nell’ombra un pericoloso bandito. I giornalisti che ricevono questa confessione decidono di non pubblicarla, per salvaguardare la leggenda del west, quale cemento dell’unità nazionale.

 “Come, non pubblicherete questa storia?” chiede il senatore (James Stewart) dopo aver fatto la sua confessione nella quale dichiara di non essere stato lui il giustiziere. “No, senatore. Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”. Frase nella quale è racchiusa la sintesi del Mito della Frontiera.

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