Torno a scrivere di neve, che dopo una ingannevole promessa di estate ha imbiancato l’Andolla, il Weissmiess e i monti svizzeri che sono il mio orizzonte quotidiano.
Per dire che la neve in aprile era evento rarissimo, sessanta, cinquant’anni fa, quando la neve arrivava a Natale, o al più tardi in febbraio. E se capitava a marzo, che regalo! Riprendevamo stivali di gomma, calzettoni pesanti, berretto e muffole di lana grassa – quella che a toccarla sembra un po’ unta-, un bel maglione pesante o il paltoncino di panno, ed era fatta.
Di piumini e giacche a vento, nemmeno l’ombra: li avevamo sì nell’armadio – non di piuma ma di cotone imbottito, al massimo rivestito di nylon – però erano riservati alla montagna vera, mica a quei quattro fiocchi che cadevano in città. Che poi proprio quattro non erano, a guardare le foto di quegli anni, con i mucchi di neve ammonticchiati a bordo strada, e qualche coraggiosa millecento che arrancava sulla bianca carrareccia.
Possibile che la neve invernale durasse più a lungo? Tanto che si poteva tranquillamente slittare sotto casa, nel recinto della ex-Colonia elioterapica, dove le ripette verdi che delimitavano i grandi riquadri di sabbia, per altro già più un ricordo visto lo stato di abbandono, diventavano spettacolari piste da discesa, con tanto di scaletta a fianco per le risalite.
La neve marzolina invece la dovevi cercare in Valganna, nel grande giardino dei nonni.
Neve diversa, bagnata e granulosa, fatta di cristalli e acqua, coperta da una dura crosta ghiacciata. Restava negli angoli a nord, sui versanti ombrosi, in mezzo agli stecchi delle ortensie: bisognava scavarla e rasparla, per farne a fatica un castello, una torre (niente palle, si rischiava un morello) sempre sghemba e arrangiata, perché non era neve da manipolare. E sotto, magari ci trovavi una qualche pratolina precoce e coraggiosa.
Ma a Ghirla il sole tramonta presto, e gli occhi vigili della mamma, che controllava dalla finestra, sapevano valutare al millesimo il confine tra doveroso infradiciamento e infreddatura pericolosa.
Così al richiamo perentorio – complice la cioccolata in attesa- rientravamo trafelati con le mani e le guance rosso fuoco, guanti e calzoni fradici, che solo la gigantesca stufa di terracotta a tre piani, troneggiante in sala, riusciva ad asciugare alla meglio. E mentre scendeva la sera, ci si cambiava giusto i calzettoni per risalire in macchina -scalzi – e tornare in città. Poi di volata su per le scale direttamente in bagno, dove nel vapore dell’acqua calda il freddo si dissolveva, le dita raggrinzite tornavano a funzionare, il mucchio di vestiti incartapecoriti dal ghiaccio lasciava una malinconica pozzetta d’ acqua.
All’indomani, sveglia in anticipo e pantofoline in cartella, perché, neve o non neve, acquazzone o non acquazzone, guai a saltare la scuola.
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