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Stili di Vita

INTERNAZIONALE XENOFOBA

VALERIO CRUGNOLA - 11/04/2019

xenofobiaCrouch individua tre grandi sfide da affrontare. Tutte si possono vincere alla medesima condizione: redistribuire la ricchezza in modo equitario riducendo le disuguaglianze globali e locali in termini sia di reddito che di accesso a beni, servizi, diritti e tutele securitarie (a partire dall’ambiente).

La prima sfida riguarda le città e le regioni “dimenticate”. Serve un mutamento di percezione. Senza abbandonare le identità nazionali e locali, occorre riconoscere le identità multiple a nostra disposizione affinché divengano «una serie di cerchi concentrici che si arricchiscono l’un l’altro con radici ferme in una sussidiarietà cooperativa» e in un’interdipendenza creativa. La possibilità di una pluralità di scelte tra “identità” fluide estende le libertà e ci arricchisce. Se invece la questione identitaria viene imposta da leader politici che la strumentalizzano per mobilitare il consenso popolare, le identità restringono la libertà individuale e possono degenerare in conflitti violenti. Crouch colloca questa prospettiva entro il secolare contrasto, iniziato nel ‘700 tra ancien régime e illuminismo, tra la sicurezza offerta dall’autorità conservatrice e della tradizione familiare e la libertà della ragione, del cambiamento e dell’innovazione.

Non meno importante è la seconda sfida: quella relativa agli habitat di alta qualità infrastrutturale, produttiva, formativa e residenziale, necessari alle aziende più avanzate e attive nell’innovazione. «Solo regimi di imposte relativamente alte e manodopera altamente qualificata possono garantire» questi habitat. La defiscalizzazione è una soluzione mitologica: «negli ultimi tre decenni il peso della tassazione nelle economie più avanzate si è spostato dal capitale ai lavoratori dal salario relativamente basso». Qui Crouch impartisce una salutare lezione all’asilo nido frequentato dai populisti italiani e a chi, prima di loro, ha dequalificato i sistemi formativi e abbandonato a se stesso il sistema sanitario pubblico. «I paesi che hanno saputo trarre vantaggio dalla globalizzazione hanno investito denaro pubblico per gli sviluppi infrastrutturali, tra cui le infrastrutture umane con un ampliamento dell’istruzione e un miglioramento della salute pubblica, priorità socialdemocratiche più che neoliberiste».

La terza sfida riguarda «la creazione di istituzioni adeguate al governo collettivo in un mondo in cui il potere economico è esercitato a livelli più alti». In quale modo percorribile la solidarietà può trascendere il cosiddetto Stato-nazione? Già il termine, come quello correlato di “popolo”, è di per sé ingannevole. Le autorità statali hanno svolto un ruolo decisivo nel costruire l’artificio concettuale della “nazione”, del “popolo” e del “territorio”, ma l’identificazione tra questi poli oggi ha perso rilievo perché non definiscono più in modo utile le cosiddette “appartenenze”, e anzi sconnettono tra loro chi vive l’esperienza delle identità plurime (e dello sfumare stesso delle identità) e le persone le cui vite sono rimaste delimitate (e quindi impoverite) da luogo e nazione, e che non si sentono a loro agio in un mondo disordinato e in rapida trasformazione. «I poveri spesso bramano stabilità e familiarità. E probabilmente guardano al cambiamento come a una minaccia per quel poco che hanno». La dicotomia tra centri “avanzati” e periferie “arretrate” si può descrivere come un doppio spaesamento tra futuro e passato. C’è chi ne approfitta. Trump premia i più ricchi; ma poiché la polarità identitaria ha inglobato quella sociale oggi dominata da spaventose diseguaglianze, un miliardario può spacciarsi per l’eroe degli oppressi.

Il campo percettivo dei sovranisti rifiuta “la condivisione e la produzione congiunta”. Al contrario, «i trattati economici di ogni genere implicano compromessi di autonomia decisionale e la partecipazione alla moderna economia mondiale ne richiede un gran numero. Spostarsi verso un processo decisionale condiviso, allontanandosi dai soli accordi trasversali, è tra i principali strumenti disponibili per colmare il divario tra dibattiti e decisioni politiche, che restano ostinatamente nazionali, e il processo decisionale economico, che è fondamentalmente transnazionaleIn un mondo sempre più integrato, i singoli Stati guadagnano dalla messa in comune della loro sovranità al fine di garantire la regolamentazione transazionale delle forze economiche». In altre parole, ogni stato deve urgentemente devolvere un’ampia quota della propria sovranità a favore di organismi terzi, per obiettivi, criteri di indirizzo e valori condivisi.

L’appiattimento delle sinistre a favore di alcuni feticci neoliberisti ha indotto i ceti più trascurati ad equiparare la socialdemocrazia ai conservatori della globalizzazione ipercapitalistica qual è oggi. «Sebbene la socialdemocrazia fosse figlia dell’Illuminismo, nella realtà l’universalismo del suo welfare state era implicitamente limitato all’ossimoro di un universo nazionale; e il suo principale supporto sociale erano state le comunità operaie industriali. Sempre più spesso quelle comunità, o ciò che ne era rimasto, dopo essere state trascurate dai socialdemocratici, hanno cercato rifugio dalla globalizzazione in un nazionalismo conservatore, mentre le nuove reclute della democrazia sociale tra i professionisti della classe media si schierarono con fermezza dalla parte del liberalismo cosmopolita. Siamo arrivati a un incrocio complesso tra i due assi, che mette a soqquadro le tradizionali alleanze tra partiti».

Emozioni, sentimenti e passioni sono un alimento dei processi democratici; ma le istituzioni hanno il potere di indirizzare, contenere e incanalare le emozioni, aiutando i cittadini a elaborarle ed educarle ai fini della stabilità dell’insieme e della capacità di conseguire risultati. In caso contrario emozioni, sentimenti e passioni possono esondare dai canali fino a travolgere i processi democratici. Il ritorno in auge di identità di tipo tradizionale (il potere dominante del maschio eterosessuale; l’avversione per le conquiste delle donne; il neotribalismo degli autoctoni; la famiglia e la comunità locale come cellula sociale perfetta; la religione dei padri insidiata da culti ostili) facilitano le destre radicali e in genere quegli imprenditori politici che fondano le loro fortune sul “gioco di ruolo” dell’amico/nemico entro una società descritta come una rocca insidiata da dentro e assediata da fuori.

«La partecipazione democratica richiede un equilibrio tra ragione ed emozione. Quanto l’ambito emotivo è messo troppo da parte, la politica diventa un esercizio asciutto e tecnocratico, accessibile solo a chi è sufficientemente ben informato». Invece, «quando le emozioni – e soprattutto paura, rabbia e odio – dominano senza alcuna opposizione da parte della ragione, la politica diventa pericolosa, anche sul piano fisico. Il dibattito come scambio significativo di opinioni nel corso del quale le persone potrebbero modificare le proprie posizioni iniziali, o almeno comprendere le idee degli avversari, diventa impossibile». «In un mondo governato dalla sola ragione sono i tecnocrati a dettar legge, in un mondo guidato dalle emozioni regna chi sa manipolare sentimenti potenti», come la xenofobia, il razzismo, il nazionalismo. La miscela dei due elementi genera tassi di conflittualità elevatissimi a tutto danno della democrazia.

«La maggior parte delle persone non si interessa alla politica per buona parte della propria vita. È noiosa, complessa e distante. Il modello razionalista di un elettore calcolatore è assurdo e irrealistico». Nel corso della democrazia moderna il sostegno prevalente è andato a chi ci ha offerto un’identità sociale che ci rispecchiasse, a chi abbiamo ritenuto una “persona come noi”. «Un’identità politica può emergere nel momento in cui un’identità sociale che sentiamo come nostra acquista una chiara rilevanza politica. È facile che ciò accada quando questa identità sociale diventa l’obiettivo esplicito delle lotte per l’inclusione o l’esclusione dai diritti politici». L’appartenenza a una classe sociale e la fede religiosa, dopo una fase di aspri conflitti suscitati dall’intensità emotiva delle lotte per l’inclusione o l’esclusione, sono state per decenni un pilastro di una democrazia vivace e stabile ordinata attraverso la partecipazione e la rappresentanza partitica. La società terziarizzata e la secolarizzazione hanno svuotato questo nesso tra identità sociale e identità politica, finendo per alimentare o l’astensionismo o nuove forme di integralismo. In cambio la politica è divenuta sempre più tecnocratica. Tuttavia, «tra le poche identità sociali che possono avere ancora un significato politico e suscitare forti emozioni vi è la nazione». Nazionalità e xenofobia sono al centro del dibattito e dello scenario politico e delle iniziative della ”Internazionale Xenofoba”, populista e sovranista, che sotto la guida di Putin accoglie al suo interno, tra gli altri, Trump, i fautori della Brexit, il grilloleghismo, l’autocrazia turca, i governi del Patto di Visegrad (che ha da poco perso la Slovacchia) e tutti i nemici dell’Unione Europea. «L’internazionale xenofoba è il prodotto dei tentativi da parte di vari imprenditori politici di plasmare, politicizzare e brandire le identità sociali per riempire il vuoto lasciato dal declino di quelle che hanno forgiato la democrazia del XX secolo. Ciò può essere fatto sia persuadendo gruppi di persone a ritenere la loro identità assolutamente prioritaria, sia imponendo la propria identità sugli altri, che vanno trattati come estranei, nemici dell’identità protetta. Nazione ed etnia sono le armi più potenti dal punto di vista emotivo per questo scopo, e sono usate sia dai gruppi conservatori predominanti sia dagli aspiranti leader delle stesse minoranze etniche radicali», come i nazional-localisti catalani.

Contro questa “Internazionale” Crouch riprende l’idea del “patriottismo costituzionale” concepito da Habermas come scudo per prevenire la regressione al “sangue e terra” dei nazifascismi. La lealtà costituzionale genera connessioni anziché disconnessioni, inclusione anziché esclusione, propositività anziché negazioni. Un’autorità indipendente come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo trae la sua legittimità giurisdizionale dalla necessità di ribadire in modo trasversale, in tutti i paesi liberaldemocratici, il primato dei diritti individuali violati dai totalitarismi. Nessun allarme o presunta situazione d’emergenza giustifica la violazione di quei diritti. Chi descrive la giurisdizione sovranazionale come il prodotto di élites non legittimate dimentica che essa trae la sua investitura dalla condivisione di un’esperienza storica e di alcuni valori fondativi oggi nel mirino dell’ Internazionale Populista, xenofoba e sovranista.

Come spiega Sen, «le identità arricchiscono le nostre vite quando gli individui sono in grado di sceglierle e definirle da soli. Quando sono imposte dai presunti rappresentanti di un gruppo o dai suoi nemici, diventano restrittive nonché causa potenziale di violenza». Ma per costringere gli imprenditori politici della nazional-xenofobia a rinunciare alla loro carta vincente, gli elettori devono affacciarsi sull’abisso in cui verrebbero condotti dall’odio e dall’intolleranza. Potrebbero percepirlo troppo tardi, mentre precipitano. I sentimenti di accoglienza hanno spazio se la disposizione alla benevolenza si sposa con argomentazioni razionali. Al momento l’impegno politico per un mondo transnazionale non ha energie emotive sufficienti nemmeno per contrastare la catastrofe climatica in corso. La UE fatica a trovare un approccio sostenibile e condiviso tra flussi migratori, libera circolazione e protezione sociale. Al contrario, una volta destati da qualche apprendista stregone, i sentimenti di odio, rabbia e paura diventano incontrollabili. L’Europa ha cinque secoli di intolleranza alle spalle. Ma la storia, secondo il ginnasta Bussetti, non è materia d’esame. “Un-Due, Un-Due, Passo!”.

(fine sesta puntata – Le prime cinque sono state pubblicate sui numeri del 09.03.19 del 16.03.19 del 23.03.19  del 30.03.19 e del 06/04/19)

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