Di recente, il 23 marzo scorso, a Varese (ancora una volta a Varese!) sono spuntati dall’ombra e altrettanto frettolosamente scomparsi manifestini e striscioni inneggianti al fascismo. Gli autori di questa iniziativa, a metà strada tra nostalgia e goliardia, hanno voluto così ricordare l’anniversario della nascita, cento anni prima, del movimento dei Fasci di combattimento, presso il Salone dell’Alleanza industriale e commerciale di Piazza San Sepolcro in Milano.
Il fascismo, come si sa, è stato sconfitto dalla Storia. Identificatosi con il suo fondatore, con lui è finito. Forse non è inutile ricordare che anche a Varese il fascismo si manifestò nella forma tipica della sua prima stagione: il 22 febbraio 1921, una squadra di camicie nere prese d’assalto una manifestazione di operai metalmeccanici. A distanza di un mese, il 22 marzo, di nuovo fecero la loro comparsa i fascisti, rendendosi protagonisti di scontri, che provocarono il ferimento di cinque persone. Gli episodi di violenza si moltiplicarono nei mesi successivi, in un clima politico e sociale già incandescente.
Don Luigi Tognola, il 5 gennaio dell’anno successivo, commentò dalle pagine del «Luce!»: «L’eredità trasmessaci dal tramontato 1921 ha con sé qualcosa di incerto, di greve, di sinistro che somiglia assai a quegli spaventosi nuvoloni che nella caldura opprimente d’una giornata afosa di luglio sono forieri di tempesta».
I «nuvoloni» si fecero ancor più minacciosi nei mesi seguenti. E lo squadrismo fascista ebbe gioco facile nel disordine di quel periodo, tollerato, come sappiamo, da Prefetti e dalle forze dell’ordine. Al punto che anche a Varese, come altrove, i fascisti, senza incontrare il minimo ostacolo, occuparono il Palazzo di Città – era il 3 agosto del 1922 –, affacciandosi poi dal suo balcone per diffondere a gran voce il verbo patriottico tra un coro di «Evviva!» e di «Alalà!».
Tra il 1921 e tutto il 1922, nel territorio di Varese gli autoproclamatisi difensori dell’ordine si impegnarono con ammirevole dedizione nello spaccare teste di cattolici, socialisti, comunisti e operai. Né si placarono le violenze nel momento in cui i fascisti vinsero le elezioni comunali del 24 febbraio del 1924, alle quali non parteciparono i partiti della sinistra. Tra gli esponenti di spicco del partito di Mussolini, che entrarono in Comune, vi furono Domenico Castelletti, che sarà poi podestà per quasi vent’anni (dal 1926 al 1944) e l’avvocato Edgardo Cavalieri, in seguito deputato della XXVII Legislatura e promotore della cittadinanza varesina onoraria conferita al duce. Lo stesso Edgardo Cavalieri di cui il fascismo, nel 1938, scoprì l’appartenenza alla «razza ebraica», negandogli di colpo onorificenze, diritti e dignità.
Le violenze fasciste, dicevamo, continuarono anche dopo la conquista dell’amministrazione cittadina: nei primi giorni di aprile di quello stesso anno ne fecero le spese la redazione del giornale cattolico «Luce!», allora situata in via Cavour, e la sede del Partito popolare. Si era, in quel periodo, in piena campagna elettorale per il rinnovo della Camera dei deputati. Alle elezioni del 6 aprile, come si sa, il “listone” nazionale, mimetico escamotage mussoliniano, ottenne la maggior numero dei seggi, senza avvalersi del famigerato premio di maggioranza previsto dalla legge Acerbo, voluta dallo stesso duce, non ancora sicuro di godere del consenso popolare. Di lì a pochi mesi, la violenza delle squadre d’azione si trasformò in violenza di Stato, trasformando l’Italietta liberale in dittatura con aspirazioni totalitarie.
Qualcuno ha detto che la scelta della democrazia per il nostro Paese ha voluto dire passare da un sistema politico in cui le teste si rompevano ad un sistema in cui le teste si contano (si legga lo splendido volumetto del filosofo Guido Calogero, L’Abc della democrazia, riproposto recentemente dalle edizioni Chiarelettere). Ora, se a distanza di un secolo o poco meno dall’esperienza della dittatura fascista ci sono alcuni italiani, giovani e giovanissimi, alimentati a pane e democrazia, che rimpiangono il tempo in cui le teste si rompevano, vuol dire che qualcosa, nella nostra storia, non deve aver funzionato. E forse dovremmo chiederci se siano sufficienti le ricorrenti testimonianze di antifascismo o se questi rigurgiti irrazionali non siano piuttosto il sintomo – preoccupante – di un male più profondo che attraversa il nostro sistema politico.
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