Manca poco più di un mese alle elezioni europee e mai come questa volta il conto alla rovescia appare segnato dall’incertezza e insieme dalla speranza che passate le urne finalmente si possa parlare di politiche costruttive. Perché mai come questa volta la gestione del Governo e l’attività dei ministri si sono intrecciate, confuse e sovrapposte con una campagna elettorale fatta anche di provvedimenti concreti e di significative elargizioni.
L’esempio più eclatante è l’istituzione del reddito di cittadinanza per il quale si sono fatti i salti mortali perché l’avvio potesse avvenire prima della scadenza elettorale. E così è stato anche per l’altra misura bandiera, la famosa quota 100 per le pensioni. Due provvedimenti di spesa che peseranno sui conti pubblici e che, soprattutto il primo, potranno comunque dare una pur piccola spinta ai consumi e quindi anche alla crescita complessiva.
Proprio la crescita è il vero problema che l’Italia dovrebbe affrontare con maggior decisione e concretezza. Ormai tutte le stime per il 2019 danno come più che probabile una sostanziale stagnazione che rischia tuttavia di diventare una vera e propria recessione. Una frenata dell’economia che ha tante ragioni. Per almeno metà la causa va ricercata nella frenata dell’economia e del commercio internazionali, in particolare della Germania che è stata da decenni la vera locomotiva europea. Ma per l’altra metà le ragioni sono tutte interne e possono essere ricondotte alle parole dimenticate dalla politica in questi ultimi mesi.
Al primo posto c’è la parola fiducia. Le prospettive del Paese sono viste negativamente soprattutto da coloro a cui spetterebbero decisioni di spesa e di investimento. Nell’ultimo incontro di Cernobbio di Ambrosetti – European House è emerso che quattro imprenditori su cinque giudicano negativamente l’operato del Governo. Le ragioni stanno soprattutto nel fatto che crescono le preoccupazioni su tanti fronti, come quello dei conti pubblici che rischiano di diventare insostenibili, quello delle grandi opere che di fatto continuano ad essere bloccate, quello dell’Europa che viene vista come un intralcio e non come una grande potenzialità complessiva.
E poi c’è la parola merito. Una società dinamica ha bisogno di valorizzare le competenze, di premiare la professionalità, di sostenere le iniziative. Ebbene di tutto questo c’è poco, quasi nulla. Anzi c’è la continua tentazione di penalizzare chi si muove, guadagna, cresce: basti pensare che vengono più che raddoppiate imposte e adempimenti ai professionisti che superano una cifra d’affari di 65mila euro. E che il reddito di cittadinanza, misura peraltro molto utile per combattere la povertà, così come è strutturato può diventare un incentivo a non lavorare.
E infine tra le parole dimenticate c’è la parola imprese. C’è un’evidente tentazione ad uno statalismo strisciante, una tentazione che diventa evidente nell’insofferenza verso le autorità indipendenti. Basti pensare agli attacchi alla Banca d’Italia, o alla nomina tutta politica del presidente della Consob (l’autorità di controllo sulla Borsa e i mercati finanziari), o ancora all’ennesimo salvataggio con i soldi pubblici di una compagna perennemente in crisi come Alitalia. Le imprese sono fondamentali per riavviare la crescita e soprattutto per l’occupazione, ma continuano ad essere considerate una mucca da mungere su tanti fronti.
Le ricette del Governo del cambiamento sembrano le stesse vecchie ricette che hanno portato l’Italia ad essere il fanalino di coda tra i paesi europei. Più spesa pubblica, più sovvenzioni, più pensioni. Sembra di essere tornati agli anni ’80, gli anni delle baby-pensioni e dei nuovi centri di spesa. Forse sarebbe il caso di cambiare tipo di cambiamento.
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