C’è sempre qualcuno che pensa che il paese appartenga agli altri, che sia una realtà diversa da quella di casa nostra e quindi meno soggetta alle attenzioni, alle cure e alle preoccupazioni. In molti casi la realtà esterna viene vissuta come altro, non tocca le corde della nostra interiorità, forse non ci è stata fatta conoscere abbastanza o non l’abbiamo vissuta come avremmo dovuto, forse a causa di un’educazione o troppo superficiale o troppo drasticamente aristocratica, fondata sulla sfera personale dell’io, sull’interesse privato, sull’idea che solo quello che cade direttamente nel nostro circuito “familiare” sia degno di particolare e approfondita attenzione. È nella distanza che prende forma il disinteresse, è in una valutazione superficiale e limitata del mondo in cui dobbiamo lavorare, che ci costringe a vestire i panni del disincanto, è in un’educazione senza proiezione oggettiva che l’esterno diventa invisibile, come se non esistesse o come se esistesse in una misura del tutto limitata e limitante.
Eppure l’esterno prende forma dalla nostra cura, dalla nostra attenzione, è una parte fondamentale della nostra vita, quella che percorriamo tutti i giorni con la pioggia o con il sole, osservando e meditando, riflettendo e contemplando, tirando un sospiro di sollievo quando lo vediamo bello e invitante. Tutto di ciò che incontriamo è parte integrante di ciò che noi siamo e più l’esterno si colora di bellezza e più emoziona l’anima, la scuote e la rinnova e più accende i sentimenti, li fa vibrare. Il paese è una parte importante della nostra esistenza quotidiana, è lo specchio di quello che siamo e di quello che vorremmo essere, è quella parte di noi con la quale dobbiamo fare i conti, per capire se siamo davvero pronti per essere cittadini con la c maiuscola, che costruiscono con caparbietà, fierezza e orgoglio il loro presente e il loro futuro.
La prima cosa che colpisce quando si va a visitare un paese è l’accoglienza, la sua capacità di farsi apprezzare per l’armonia di un centro storico, per la particolarità delle sue ville e dei suoi giardini, per la bellezza dei suoi monumenti, per l’ordine e la pulizia, per la compostezza del suo verde, per la cortesia della gente, per una bellezza che sorprende, stupisce, regalando momenti di assoluta serenità.
Se un paese è amato lo vedi anche dalla disposizione delle case, da come solidarizzano con l’ambiente, dall’arredo urbano, dal rispetto nei confronti del patrimonio culturale e di quello ambientale. Insegnare la bellezza è fondamentale, ma è ancor più fondamentale farla vivere, fare in modo che possa fare proseliti, che entri nel dna dei giovani, che venga trasmessa in tutte le sue forme, che migliori lo stato d’animo delle persone. Capire il senso di un’ appartenenza non è facile, ma è possibile. Non solo è possibile, è un dovere. L’appartenenza non è una questione di maggioranze o di minoranze, non si tratta di tracciare confini dentro i quali esercitare il potere, ma confermare il valore di un impegno, con la certezza di poterlo ottemperare.
Ci si domanda spesso come mai ci siano paesi e città belli, ben curati, puliti, accoglienti, forse la risposta è molto più semplice di quanto si possa immaginare, sta nella volontà e nei comportamenti delle persone, nella serietà con cui si affrontano i problemi, nella collaborazione o, in modo particolare, nella duttilità di chi è ufficialmente preposto alla guida del territorio.
Dietro la bellezza c’è sempre una vocazione, un desiderio, un amore, una competenza, una cultura, la capacità di mantenere in vita, migliorandolo, quel patrimonio di cose belle e di affetti che abbiamo ereditato da chi lo ha costruito molto tempo prima, con fatica, entusiasmo e passione. Spesso delle cose belle si parla pochissimo, ci si accontenta di qualcosa, per dimostrare che non siamo assenti, ma l’assenza sbuca ovunque, soprattutto quando l’attenzione non è pari alle attese. Si sente fortemente la mancanza di una scuola che sappia trasmettere calore, entusiasmo, voglia di essere e di fare, una scuola che non sia schiava di misure classiste, di ore che si susseguono ammantate di noia e di nervosismo. Si sente la necessità di una cultura convergente, che sappia osservare e discutere il mondo, che scuota i torpori, allerti le vocazioni, metta in guardia contro le stupidità umane, che contribuisca a rafforzare l’interesse, il senso di quello che si fa e la voglia di fare meglio.
In un paese in cui si parla sempre più spesso di soldi e di potere, pochissimo di valori e di bellezza, varrebbe la pena fermarsi e fare un passo indietro, cercando di cogliere ciò che veramente conta, quella parte di realtà che ci vorrebbe vedere attenti e pronti sempre, a riaffermare lo straordinario valore del patrimonio che abbiamo ricevuto in dono. Nel mondo delle tecnologie e dei robot, dove la fanno da padroni i telefonini, forse sarebbe utile domandarsi che cosa sia la vita, quale valore abbia, che cosa sia più giusto fare per essere contenti di se stessi, quale importanza abbiano il lavoro, gli affetti, le emozioni e i sentimenti, le persone che attraversano il nostro cammino, che cosa si possa fare per rendere più appassionanti e gradevoli i rapporti interpersonali e le relazioni in generale.
Nel mondo delle tecnologie e dei robot ci si domanda se l’educazione abbia ancora una funzione rigenerante, capace di far ritrovare il senso dell’armonia, del confronto, della costruzione convergente, ci si domanda soprattutto se chi ha responsabilità in questa direzione faccia veramente tutto quello che occorre fare per dare risposte attendibili a una persistente richiesta di bellezza e di sicurezza da parte delle persone.
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