Sulle rovine provocate dalla seconda guerra mondiale causata dalla mostruosità schiacciante di un mito – il nazionalismo – incominciò a fiorire la speranza e uomini forti, non rassegnati a vivere in un mondo disumano, incominciarono con il tempo a parlare di pace e dei suoi corollari: democrazia, libertà, giustizia sociale.
In questi giorni, in cui possiamo ritenere che il Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord (così si chiama nell’ambito delle nazioni!) sia sul punto di uscire definitivamente dall’Unione Europea, il mio pensiero è riandato più volte a uno di questi illuminati uomini: il britannico Winston Churchill. Fu lui che, in un famoso discorso tenuto a Zurigo nel 1946, indicò la necessità di avviare il processo d’unità europea, sciogliendo il nodo di “mettere nell’impossibilità la Germania di riarmarsi e di scatenare una nuova guerra”. Churchill riprendeva l’idea del premio Nobel e statista francese Aristide Briand che, nel periodo tra la fine della prima guerra mondiale e l’insorgere delle dittature, aveva cercato di promuovere dei tentativi di unificazione dell’Europa, progetto che si fondava su basi alquanto fragili perché basato sul lasciare intatta la sovranità di ogni singolo Stato, con la conseguenza che nessuna nazione si sarebbe sentita vincolata dalle decisioni prese dagli altri paesi.
Ci pensò Robert Schuman a dirimere i contrasti proponendo, con la sua dichiarazione del 9 maggio 1950, una Comunità di Paesi intenzionati a concedere ad organismi sovrannazionali parte della loro sovranità, prima tappa dell’unità politica dell’Europa. Schuman era scettico sull’ingresso del Regno Unito nella Comunità. Scrisse chiaramente: “Il Regno Unito non accetterà d’inserirsi nell’Europa se non costretto dagli avvenimenti”.
I motivi erano molteplici: d’ordine psicologico (“Il Regno Unito è insulare e cosmopolita, tradizionale, istintivamente timoroso verso ogni innovazione ideologica”), d’ordine giuridico- istituzionale (“ il Regno Unito ha un pregiudizio imbattibile contro i testi precisi e rigidi”), d’ordine politico e storico (“è impensabile per un inglese che vi possa essere per lui, per un governo inglese, per un parlamento inglese, un’autorità superiore a quella di un parlamento inglese”), d’ordine educativo (“si tratta di una differenza di mentalità, di educazione politica, di tradizione nazionale…l’inglese è dotato di molta duttilità empirica”) d’ordine affettivo (“gli inglesi sono sentimentalmente più legati alle loro colonie che all’Europa”).
La cronologia dell’adesione del Regno Unito all’Unione Europea è la prova lampante di questa incertezza. L’Irlanda, il Regno Unito e la Danimarca presentarono domanda di adesione all’allora Comunità dei sei nel 1961, ma la loro richiesta fu fortemente avversata dal generale De Gaulle. Ripresentarono una nuova domanda nel 1967, nel 1969 il Consiglio riprese la domanda d’adesione e il 1° gennaio 1973 i tre paesi entrarono a far parte della Comunità Europea, anche se l’anno successivo il nuovo governo britannico chiese di rinegoziare l’adesione alla Cee e nel giugno del 1975 la maggioranza britannica si pronunciò tramite referendum (ecco il dèmos!) per il mantenimento nella Cee.
Vennero, poi, gli anni del governo di Margaret Thatcher che più volte, con sprezzante ironia, denunciò la frustrante incapacità dei Governi a trovare accordi (e lei ne era la principale attrice!) dapprima sulla politica agricola, poi sul bilancio, successivamente sulla sicurezza e cooperazione europea, sull’estensione delle competenze comunitarie, sul rafforzamento del Parlamento Europeo… In poche parole, il Regno Unito denunciava una serie di obiezioni per rendere difficoltoso il cammino verso l’unità politica.
Dopo Maastricht, al momento della fondazione dell’Unione europea monetaria, il Regno Unito si unì a quei tiepidi paesi che non ebbero il coraggio di trarre le conseguenze di quel passo per creare una comune politica economica di bilancio e fiscale. La moneta unica fornì il pretesto al Regno Unito per non cedere ulteriore sovranità all’UE e si isolò con la sua sterlina.
Con la scomparsa dell’Urss, il Regno Unito contribuì a rendere ancora più difficoltoso il percorso verso l’integrazione europea. Esso era consapevole che con l’adesione all’Ue di nuovi paesi, fin ad allora soggetti all’influenza sovietica, si sarebbe creato un ulteriore, forse insormontabile, ostacolo al processo d’integrazione. E si schierò a favore di quei paesi che, Germania in testa (seppur con motivazioni dissimili da quelle britanniche!), accelerarono l’allargamento a Est.
Il resto è cronaca di questi giorni. Un referendum innescò il processo di uscita dall’Ue. Il parlamento britannico ha trovato una schiacciante maggioranza nel dire quello che non vuole, ma non in quello che vuole. L’uscita dovrebbe essere consensuale, ma il Regno Unito è intestardito (1) nell’uscire dall’unione doganale pur conservando la capacità di negoziare autonomamente accordi commerciali con paesi terzi, (2) di rimanere a fare parte del sistema d’integrazione commerciale europea e di salvaguardare i diritti dei cittadini britannici stabilitisi nell’Unione, (3) di preservare la circolazione tra Irlanda del Nord e Irlanda. Se le prime due richieste possono essere accettate (Norvegia docet!), la terza non è accettabile perché l’Irlanda del Nord fa parte del Regno Unito e alle frontiere con l’Irlanda dovrebbero essere poste delle dogane per la riscossione di dazi. Il che potrebbe scatenare un’altra guerra civile, mascherata da guerra di religione.
“La storia è sempre contemporanea” – predicava Benedetto Croce –. Fin dall’inizio della sua adesione alla Comunità europea, il Regno Unito non ha voluto comprendere che più che un’unione di stati, l’Ue è unione di destini. Con la sua ambiguità il Regno Unito ha creato grossi problemi non solo per se stessa, ma anche per gli altri.
Purtroppo, non è sola: l’ambiguità dell’euroscetticismo di certi movimenti nostrani può portarci nelle stesse condizioni in cui si trova oggi il Regno Unito: opinione pubblica divisa, parlamento frantumato nelle classiche formazioni politiche, partiti parcellizzati in divisioni interne.
Sarà bene che ci riflettano anche gli euroscettici italiani, tenendo presente anche l’aggravante che il nostro Paese non ha una solida economia ed è isolato in politica estera.
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