L’eterogeneo fenomeno populista descrive un filone della politica moderna. Non si ripete identico a se stesso in un continuum temporale. Non è una categoria dello spirito. Con qualche forzatura si possono distinguere tre tipologie in altrettanti scenari storici. La prima manifestazione, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX, ebbe il suo epicentro in forze tradizionali legate a sistemi produttivi in disgregazione nelle aree rurali, in forme di ribellismo sociale nelle periferie urbane e nei nazionalismi emergenti. Il suo collante fu il rifiuto dei valori della modernità, dell’illuminismo e delle istituzioni liberali. Negli anni ’50 i populismi emersero in paesi con robuste tradizioni democratiche durante alcune delicate fasi di transizione, come il qualunquismo durante l’avvento della democrazia in Italia o il poujadismo nel lento tramonto della Quarta Repubblica nel corso del conflitto franco-algerino. Si trattò di fenomeni episodici: l’espansione economica, l’integrazione dei mercati e delle istituzioni, la stabilità del sistema bipartitico e il bilanciamento tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa hanno saputo contenerli. Infine, i populismi contemporanei sono il frutto o del fallimento della democratizzazione in paesi rimasti impermeabili a ordinamenti pienamente liberaldemocratici (Turchia, Russia, vari paesi slavi e balcanici, parte dell’America Latina), o del protrarsi delle difficoltà insorte nei processi democratici (è il caso della “Seconda Repubblica” in Italia).
Il populismo è insieme figlio e padre, attore e autore di pronunciati processi di de-democratizzazione che preservano alcune fragilissime procedure delle istituzioni democratiche, come il ruolo di legittimazione che compete al voto. Benché contengano in sé potenzialità eversive, i populisti non hanno vinto con insurrezioni violente: hanno saputo piegare a sé le procedure elettorali “democratiche” dopo avere sgombrato il campo da ogni potenziale opposizione paritetica e competitiva. Solo in una seconda fase, attualmente in corso, i populisti mirano a deformare gli assetti politici e costituzionali a danno dei pilastri liberali: la divisione dei poteri con i suoi pesi, freni e contrappesi; la libertà di stampa; i diritti della persona.
Viviamo un tempo non ordinario nel quale i caratteri essenziali della vita collettiva di un paese vengono posti in discussione. Gli avversari politici delle forze liberali e democratiche non convergono più sul terreno neutrale delle regole del gioco e sui loro principi, non accettano più che le libere elezioni si fondino sulla reciproca legittimazione tra temporanei vincitori e temporanei vinti, e prosperano attraverso la radicale, continua delegittimazione dell’avversario, combattuto come un nemico. “Tanti nemici, molti voti”, scriverebbe un burlone sagace sui muri con la calcina. In questi tempi straordinari «i contorni essenziali della politica e della società vengono rinegoziati. In epoche simili le divergenze tra i due schieramenti diventano così gravi e profonde che non c’è più accordo sulle regole del gioco. Pur di guadagnare un vantaggio, i politici sono disposti a minare le elezioni libere e giuste, a trasgredire le norme fondamentali del sistema politico e a denigrare gli avversari».
Nelle democrazie liberali ogni vittoria è provvisoria, ogni sconfitta è reversibile. Il primo impegno nel contrasto dei partiti populisti è di indurli a convenire che la condivisione delle regole protegge tutti da una “vittoria per sempre”. La sconfitta in una battaglia politica non può privare nessuno della possibilità di condurne un’altra. Di per sé la visione amico-nemico non è monopolio di populisti o dittatori. Semplicemente, sino a qualche tempo fa chi evocava un nemico interno non intendeva necessariamente ridurlo all’impotenza al punto da costringerlo a gettare la spugna.
Già altre volte il venir meno di equilibri consolidati e il repentino dissolversi dei partiti storici hanno facilitato le fortune di avventurieri politici, di uomini forti e abili comunicatori ispirati a visioni plebiscitarie che hanno scavalcato le norme costituzionali, la libertà di stampa, i diritti delle minoranze e le istituzioni internazionali. Ma la comparazione tra passato e presente non ammaestra e non serve. I populisti odierni rispondono ad un paradigma comune che impasta in modo inedito dei materiali preesistenti. Liberali, democratici, ecologisti e socialisti hanno sottovalutato i populisti proprio mentre questi venivano convergendo verso una tacita condivisione globale di schemi strategici, costrutti di pensiero, narrazioni ideologiche, linguaggi, strumenti propagandistici e prassi politiche. I movimenti populisti hanno cessato di essere un campo eterogeneo di forze destinate a vivacchiare di rendita all’opposizione. Lungo il percorso hanno perso per strada le matrici locali. I confini lungo le classiche polarità spaziali di destra, centro e sinistra sono sempre più incerti, confusi e sincretici. L’età del centro, della conquista del consenso sul terreno del moderatismo, è finita. Vince chi sa assorbire in un unico alveo una pluralità di istanze radicali.
Siamo di fronte, in una parola, a fenomeni non più degenerativi, ma sostitutivi della democrazia. Il populismo, secondo Müller, è “una strategia di potere”. La costruzione rozza, semplificata e iterativa del consenso serve a conquistarlo con il voto; la sistematica devastazione delle istituzioni approfittando della debolezza e della divisione delle opposizioni, serve a conservarlo e consolidarlo.
Nei loro rapporti interni i populismi, anche quando nati diversi e distanti, procedono per adattamento, selezione competitiva, convergenza e fagocitazione a beneficio del più forte. Nella loro scalata al potere sono sufficientemente elastici da assorbire vasti bacini di rappresentanza e di insediamento elettorale e sociale occupati in precedenza dai loro avversari. Sono sufficientemente spregiudicati per saper modificare ad esclusivo vantaggio della loro strategia di potere la costituzione materiale senza modificarne i testi e gli apparenti assetti istituzionali. Procedono in modo graduale, accelerando lentamente le forzature sino a un punto di non ritorno, oltre il quale i loro oppositori non sono più in grado di lottare in modo efficace.
Siamo davanti a due linee di scontro. La prima, classica e infiacchita dal mercato globale, oppone le democrazie declinanti e i regimi autoritari o monocratici stabilmente al potere in Russia, Cina, Medio Oriente, nella pancia dell’Asia ex sovietica, in America Latina e in Africa. La seconda, anomala, oppone l’antipolitica populista e l’antipolitica tecnocratica di chi governa l’economia globale e le nuove tecnologie, incluse le biotecnologie. La democrazia declinante può venire sopraffatta tanto dai suoi nemici tradizionali, quanto dai due nuovi nemici, tra loro opposti ma convergenti nell’ostilità ai processi deliberativi della democrazia liberale. I regimi autoritari fondati sulla retorica populista, come la Cuba castrista, hanno ceduto il passo a regimi nazionalisti, non meno autoritari, con ambizioni regionali (Turchia) o globali (Russia, Cina). Questi regimi sono pronti ad alleanze strategiche sia con l’antipolitica populista che con quella tecnocratica, a tal punto globalizzata da essere indifferente agli strepiti sovranisti che a fini demagogici riesumano identità impallidite ma ancora in grado di infiammare il “popolo”. Esposta a una triplice minaccia, la democrazia rischia di infrangersi come un vaso di coccio in mezzo a tre vasi d’acciaio. La democrazia liberale potrà salvarsi solo se saprà vincere tre battaglie contemporaneamente. Se non ritrova le sue energie migliori, se non si sgrava di schemi ideologici palesemente fallimentari come il liberismo, se non costruisce una nuova narrazione che le restituisca il fascino perduto, a grado a grado tutte le conquiste intervenute a partire dall’illuminismo rischiano di andare perdute.
Le difficoltà sono grandi. Gli urgenti cambiamenti di rotta in sede politica, economica, sociale e ambientale necessari a far fronte contemporaneamente ai populisti, ai regimi autoritari, alle tecnocrazie, ai nuovi monopoli dell’informazione, a Big Data, allo specchio deformante dei social, alla crisi ecologica, alla recessione e alla sfida ineludibile della società multietnica, sono impopolari. La politica deve recuperare credibilità e capacità formative proprio perché è chiamata a fare scelte impopolari ma non può farlo se non dispone di un consenso ragionato entro un sistema di valori condiviso. Il riformismo – un riformismo vero, non un’etichetta politicista o una sparata demenziale del tipo «Abbiamo abolito la povertà» – è chiamato perciò a una sfida cruciale, che esige il coraggio della radicalità, della tempestività lungimirante e della franchezza senza infingimenti. Il tutto nel pieno rispetto, e anzi nell’estensione, dei diritti liberali e democratici. È qualcosa di più di un “semplice” (si fa per dire) e doveroso rinnovamento dell’agire politico. Sicuramente non la si scampa se ecologisti, liberali, democratici e socialdemocratici, spesso tra loro disuniti, si limitano a competere con i populisti e tra loro per spacciare l’offerta più accattivante e banale sul mercato del consenso.
[fine quarta puntata – Le prime tre puntare sono state pubblicate numeri del 09.03.19 del 16.03.19 e del 23.03.19)]
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