(O) Proprio non digerisci il romanzo di Eco o gli rimproveri soprattutto il suo successo e la sua influenza culturale e mediatica? Non ho nemmeno capito bene cosa c’entrano le fiction con la dialettica identità/contraddizione che mi sembrava la tua principale tematica della scorsa apologia.
(C) In realtà il mio tema centrale era quello dell’identità, omologo nel campo della prassi a quello della verità nel campo della conoscenza, se ricordate, dicevo:”senza identità non si resiste alla contraddizione, non si supera nessuna prova, materiale o morale”. Senza moralità non si arriva a conoscere la verità e comunque non ci si permane e contemporaneamente senza verità non si può mantenere un comportamento morale. È un paradosso, ma molto vero. ‘Il Nome della Rosa’ attacca il cristianesimo su entrambi i fronti e la sua versione televisiva lo fa con particolare accanimento, cercando anche di aggiungere la suggestione della spettacolarità. Ma non mi preoccupa l’attacco ideologico o culturale, quanto il pensiero della dilagante indifferenza rispetto ad ogni prova cui la Chiesa come istituzione e la Cristianità come religione o, se preferite, come cultura storicamente radicata e attiva, sono sottoposte. Avevo documentato la sorprendente presa di distanza del card. Parolin e in parte del vescovo di Verona rispetto al Congresso mondiale delle famiglie; si deve essere preoccupato anche il Papa, se ha sentito il bisogno di riaffermare da Loreto la dottrina cristiana sulla famiglia, respingendo la paura di un fraintendimento ‘politico’ delle sue affermazioni e ritenendo necessario esprimere con chiarezza la propria identità. Ma torniamo alla fiction tratta dal ‘Nome della Rosa’, che sembra poter diventare la fiction prodotta dalla Rai più venduta all’estero.
(S) Non ho letto il libro e non me ne pento, avendo appreso dal Corriere che anche Aldo Grasso, di professione critico letterario e televisivo, non è riuscito a terminarlo. In che cosa consiste questo doppio attacco del romanzo, riproposto dalla fiction?
(C) L’aspetto più appariscente è quello morale: tutti sono corrotti e violenti, tranne Guglielmo da Baskerville, che ostenta una misericordia francescana insieme ad una acribia illuministica, che tuttavia non basta ad evitare la tragedia finale. Ma la tesi più velenosa è quella meno evidente: la pretesa della Chiesa ad essere arbitra del destino dell’umanità si basa sulla possibilità di giustificare il possesso di una verità assoluta. Quale sia la verità è l’argomento della disputa tra domenicani e francescani e in parallelo tra Papa e Imperatore. Se si dimostra che questa pretesa è infondata e che la verità ‘assoluta’ è impossibile, si vanifica anche ogni pretesa dottrinale o morale del Cristianesimo. Questa è la conclusione cui arriva Eco/Guglielmo di Baskerville all’epilogo del romanzo: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (“la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”).
Ciò significa che nulla esiste al di là dell’individuale contingente, se non il puro nome, su cui non è possibile costruire un’affermazione universale, che pretenda di valere sempre e ovunque. Ma se la parola non ha il potere di portarci alla verità, ha tuttavia quello di irridere ogni pretesa di assolutezza, ha il potere di suscitare il riso, che ha a sua volta la capacità di demolire ogni presunto sapere. Questo sarebbe il contenuto del secondo libro della Poetica di Aristotele, ritrovato, letto, nascosto e avvelenato dal monaco Jorge, il vecchio bibliotecario, che ne vuole impedire la conoscenza. La superiorità del riso sull’argomentazione deduttiva, se fosse sancita dall’autorità aristotelica, resa nota dal ritrovamento della parte perduta della poetica, compirebbe quel sovvertimento sociale e politico adombrato dalla ‘Festa dei Folli’, il carnevale medievale in cui per un giorno effettivamente i servi prendono il posto dei padroni, i laici dei chierici, gli umili dei nobili, gli ignoranti dei dotti.
(S) Fosse vivo ora, Eco, vedrebbe realizzata la sua profezia, non ho bisogno di dire come e dove.
(O) Credo sia un’affermazione acuta quella di Eco: “se il mondo si accorge che si può ridere di Dio, la religione può crollare” e io aggiungo: molto più rovinosamente che per le confutazioni scientifiche e filosofiche. Eco avrebbe letto in questo modo la furiosa reazione islamica alle vignette su Maometto. Per dirla con una frase manzoniana: “mariuolo, ma profondo” questo Eco.
(S) Per me prevale il mariuolo, filosofico, ben inteso. Esaminiamo questa sua frase, da un’intervista molto seria. «Mi viene in mente la commedia di Govi ‘Colpi di timone’. Dando colpi al timone si bordeggia. Bordeggiare è viaggiare controvento: si va un po’ di qua e un po’ di là. Ritengo che la poetica del bordeggio faccia parte della mia attività intellettuale. Posso scrivere un saggio su Tommaso d’Aquino e subito dopo una parodia del medesimo. Proprio come dare un colpo di timone. Bordeggio per non prendere troppo sul serio ciò che faccio”. Viaggiare contro vento sarebbe come evitare le contraddizioni con uno stratagemma, ammissibile in letteratura, nel genere fantastico, scorretto in storia e in filosofia, troppo spesso praticato in politica, ma senza risultati duraturi.
(O) Dai! Non fare il moralista alla Bernardo Gui. L’abilità di Eco in questo romanzo è stata quella di addensare richiami colti ad altre opere e ad altri scrittori, magari anche di più alta levatura, con la capacità di rendere attuale e pertinente il richiamo. Tutti sanno che dietro Guglielmo di Baskerville ci sono sia Guglielmo di Ockham sia Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes, per via del ‘Mastino dei Baskerville’ e quindi Adso non è altri che il grezzo Watson, Jorge da Burgos, il monaco cieco avvelenatore dei confratelli, per impedire la diffusione della ‘Poetica’ rivela un debito letterario cospicuo verso Borges. Dice ancora Eco in un’altra intervista: “Nel corso della narrazione mi accorsi che emergevano – attraverso questi fenomeni medievali di rivolta non organizzata – aspetti affini a quel terrorismo che stavamo vivendo proprio nel periodo in cui scrivevo, più o meno verso la fine degli anni settanta. Certamente, anche se non avevo un’intenzione precisa, tutto ciò mi ha portato a sottolineare queste somiglianze, tanto che quando ho scoperto che la moglie di Fra’ Dolcino si chiamava Margherita, come la Margherita Cagol moglie di Curcio, morta più o meno in condizioni analoghe, l’ho espressamente citata nel racconto. Forse se si fosse chiamata diversamente non mi sarebbe venuto in mente di menzionarne il nome, ma non ho potuto resistere a questa sorta di strizzata d’occhio con il lettore.». Vedete che i richiami sono anche occasioni di ripensamento del passato e di introspezione del presente?
Ma passiamo al secondo argomento, in che cosa vedi qualcosa di negativo nelle fiction con protagonisti figure ecclesiastiche?
(C) In generale una riduzione della figura del cristiano consacrato ad un ‘carattere’, poco più serio di una caricatura, quindi non ci allontaniamo molto dal tema ‘rivoluzionario’ di Eco. Mi scuso se dovrò essere sommario, limitandomi alle tre serie più attuali e considerando solo qualche aspetto generale. Mi riferisco, ovviamente, alle fortunatissime ‘Don Matteo’ e ‘Che Dio ci aiuti’, produzione RAI e LUX VIDE, e ‘Padre Brown’, produzione BBC, in onda su Paramount Channel. Però prima voglio saldare il conto con le citazioni di Eco e aprirmi la strada al secondo punto, valendomi di un’autorità del tutto inaspettata: Gramsci. Scrive nelle Lettere dal Carcere: «Il padre Brown è un cattolico che prende in giro il modo di pensare meccanico dei protestanti e il libro è fondamentalmente un’apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana. Sherlock Holmes è il poliziotto “protestante” che trova il bandolo di una matassa criminale partendo dall’esterno, basandosi sulla scienza, sul metodo sperimentale, sull’induzione. Padre Brown è il prete cattolico, che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità. D’altra parte Chesterton è un grande artista, mentre Conan Doyle era un mediocre scrittore, anche se fatto baronetto per meriti letterari; perciò in Chesterton c’è un distacco stilistico tra il contenuto, l’intrigo poliziesco e la forma, quindi una sottile ironia verso la materia trattata che rende più gustosi i racconti.»
Detto questo, posso facilmente ammettere che sia molto difficile tradurre in caratteri, azioni e dialoghi adatti ad una fiction i personaggi e le risonanze di una letteratura raffinata. Posso quindi perdonare la BBC di non aver compiuto l’impresa, ringraziandola però del tentativo di restare fedele allo spirito di Chesterton di coniugare la saggezza morale di un prete cattolico profondamente prete e pienamente cattolico con l’umanità scoppiettante dell’UOMO VIVO, che è il vero personaggio-tipo, il vero ideale di Chesterton. Se alcuni personaggi di contorno sono assai poco chestertoniani (la Vecchia beghina, troppo beghina, la lady troppo aristocratica, la belloccia troppo disinibita, qualche comparsata di omosessuali del tutto estranea alla mentalità di Chesterton,) tuttavia bisogna riconoscere che si respira un’atmosfera da comunità parrocchiale e che il prete viaggia ‘con gli oli santi in tasca’, pronto a somministrare sacramenti ai morenti e a indirizzare i viventi sulla retta via.
Non altrettanto mi sento di dire di ‘DON MATTEO’, nonostante la iniziale, dichiarata volontà d’ispirarsi al modello di prete investigatore di Padre Brown. Da un lato capisco che, scelto l’interprete, l’ex pistolero e forzuto Terence Hill, questi abbia piegato (mi era scappato di scrivere ‘piagato’) il personaggio a sua immagine e somiglianza e sia dedito all’attivismo più che all’introspezione, che quindi giri ecologisticamente in bicicletta (ma quasi sempre in discesa), che amministri le pecorelle con buoni consigli di buon senso quotidiano. Dall’altro lato non vedo il ritratto, anche nei tratti migliori e se volete anche in quelli più ordinari, del prete cattolico che ha una concezione della vita e cerca di metterla in pratica. Resta soprattutto un investigatore, stranamente vestito in abito talare, piuttosto che un prete che a partire dalla sua esperienza dell’inscindibile rapporto tra umano e divino cerca di fornire alla giustizia umana gli argomenti di una diversa sapienza che altrimenti sfuggirebbero.
(S) Ti interrompo per dire che per voler essere raffinato, sei anche troppo condiscendente. È l’intera impostazione della serie e quindi degli episodi che non c’entra nulla. Intanto il colore è spesso più rosa che giallo e il prete è altrettanto impegnato a risolvere guai amorosi tipici di giovani ingenui e di meno giovani scriteriati, che a risolvere casi polizieschi, e ovviamente assai meno dedicato a fare il prete per tutto il resto delle sue pecorelle. Per farla breve, dirò che il medesimo difetto si riscontra in ‘CHE DIO CI AIUTI’, altro prodotto RAI-LUX VIDE, dove suor Angela è ancor più fuori dagli schemi, simpatica e altruista, ma di religioso sa dire solamente ‘che Dio ci aiuti’, anzi, corregge persino una delle sue ragazze che una volta esclama, forse in maniera più appropriata, ‘che Dio ci salvi’.
(C) Beh, non era mia intenzione sollevare questioni di morale o di ortodossia. Piuttosto mi sembra drammaticamente acuto il problema della capacità della Chiesa, specialmente nella sua ufficialità, ma dei cattolici in generale, di usare i mezzi di comunicazione contemporanei per esprimere una propria chiara e attraente visione del mondo. Temo che per la gente comune, chiamiamolo pure il ‘popolo’, sia più facile guardare a questi modelli televisivi, largamente banalizzati, piuttosto che ad occasioni formali di introduzione alla vita cristiana, come i catechismi dei giovani, l’omelia domenicale, le ‘tre sere’ di formazione. Detto in modo populistico: se sono questi i reali catechismi di cui si nutrono giovani e adulti, stiamo freschi! Anzi preferisco scontrarmi con un avversario che abbia la cattiveria esplicita con cui Rupert Everett ha interpretato il personaggio di Bernardo Gui. Leggete qualche brano della sua intervista a Vanity Fair: “«È la mia crociata contro la cultura dentro cui sono cresciuto: a 7 anni i miei genitori mi hanno spedito ad Ampleforth, austero monastero benedettino. E, in generale, contro la Chiesa cattolica che, nel Medioevo, era più terribile dell’Isis e che, tutt’oggi, mi vedrebbe volentieri all’inferno per il solo fatto di essere gay». (grassetto di Vanity Fair). Rivedete qualche brano su Rai Play e capite da dove nasce quella maschera da Torquemada, da spaventar bambini, ma che, ripeto, mi preoccupa meno delle banalità tanto apprezzate invece dal ‘mercato’. Infatti tengo conto dell’impatto sul ‘popolo’ attraverso lo strumento più contemporaneo e oggettivo: i dati auditel, che mi dicono che partita dal 27.38% di share, la serie di Giacomo Battiato tratta dal romanzo di Umberto Eco, chiude la sua corsa al 16.9%, con circa 2 milioni e 600mila spettatori in meno rispetto al debutto, mentre le altre due serie citate continuano il loro pluriennale successo. Sarà meglio un nemico sincero attizzato da un rancore o un quasi amico devoto al marketing? Io penso che la Cristianità debba temere più la riduzione deformante che l’aperta contraddizione.
(O) Onirio Desti (C) Costante (S) Sebastiano Conformi
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