Italiani brava gente… Tre parolette che starebbero a significare un carattere di cui – per anni – siamo andati fieri e del quale probabilmente ci siamo anche glorificati. Più o meno mezzo secolo fa un bravo regista, Giuseppe De Santis, ne fece il titolo di un suo film, ambientato durante la seconda guerra mondiale e la campagna di Russia.
Meno male che – così si dice e fin dai tempi delle invasioni barbariche: le prime – non siamo proprio un popolo di guerrieri, avendo spesso demandato a altri, durante guerre devastanti, il compito di difenderci e talvolta di soccorrerci. Anche il regista De Santis, del resto, non tratteggiò un carattere generale, e dunque non diede fiato a un luogo comune, ma descrisse il destino di alcuni nostri soldati, alcuni eroi loro malgrado, altri morti per ingenuità, altri ancora precipitati in un vortice di ideali fallaci.
Il detto “Italiani brava gente” in questo caso è legato a singoli episodi della campagna di Russia, più spesso citata per l’inenarrabile eroismo delle nostre truppe durante la famosa tragica ritirata dal Don a Nikolajewka, nel gennaio del 1943, e meno per l’assurda aggressione al popolo russo perpetrata dal fascismo in combutta con il nazismo nell’estate del 1941.
Di singoli episodi, alcuni degni di memoria e di encomio, altri meno, è costellata la vita, oltre che le guerre. In Etiopia e in Eritrea, negli anni Trenta, quelli famosi dell’impero, non è proprio che gli italiani si distinsero per lealtà e generosità. Fummo feroci, spietati, tanto quanti altri.
Studi recenti – ma la cosa era già stata denunciata in quegli anni dal deposto imperatore etiope Hailé Selassié alla Società delle Nazioni – hanno dimostrato in modo inoppugnabile che l’Aviazione italiana (il viceré d’Etiopia era il maresciallo Pietro Badoglio) volando a bassa quota aggredì militari e popolazione civile bombardandoli con il gas iprite, talvolta “immagazzinata” anche all’interno di bombe o granate. “Si stima – traiamo queste note da un recente libello del padre comboniano Alex Zanotelli, Prima che gridino le pietre, il quale a sua volta s’è documentato sui lavori di Angelo Del Boca, il principale storico delle guerre del Duce in Africa – che l’Esercito italiano sia stato responsabile di ben sessantacinque bombardamenti all’iprite, che aveva l’effetto di bruciare e disintegrare i tessuti del corpo umano, penetrando attraverso gli abiti. (…) Il 20 febbraio 1937 migliaia di italiani residenti ad Addis Abeba si armarono di mazze e spranghe di ferro per una sanguinosa caccia al nero, che terminò con un bilancio da 2500 a 10.000 civili morti, bambini compresi… Del Boca – cita ancora padre Zanotelli – ricorda che nessun italiano, militare o civile, ha mai pagato per quegli atroci delitti”.
Si dice, con buona pace di tutti, à la guerre comme à la guerre, ma resta sempre difficile far calare un velo su queste storie: in Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia, Montenegro non è proprio che gli italiani siano ricordati come “brava gente”. Il nostro – benché di proporzioni forse più ridotte rispetto a quello di altri Paesi – fu un colonialismo non meno duro. Il ricordo che in molti Paesi africani o no si tramandano della presenza italiana non sempre è benevolo. E il razzismo, l’odio, la vendetta, la violenza sono elementi della vita che si avvolgono su sé stessi, come nelle spirali. Il rispetto dell’uomo verso l’altro uomo non ha (o ce l’ha poco) il parametro della solidarietà e della nozione di vivere un medesimo destino. Ma si appiattisce sugli interessi, sul denaro che porta benessere a certi e dolore a altri. Altro che gli ideali di democrazia, che non si esporta con le bombe.
Non è retorica: si sente affermare, oggi, per esempio che i bombardamenti – la guerra – di otto anni fa nei confronti della Libia e del dittatore Gheddafi, promossi da francesi e inglesi cui si associarono presto e in forma massiccia anche gli italiani, furono sbagliati perché, tolto di messo il bieco dittatore, si diede via libera alle tribù anarcoidi, alle violenze, alla costituzione di una “terra di nessuno”. Ma ciò avvenne per portare democrazia o non invece per tutelare propri interessi petroliferi e affaristici? Magari con il timore che la Francia (la solita “odiata” cugina) ci superasse nelle preferenze e nel business?
Quasi sempre, quando ci si riferisce a situazioni odierne di violenza, di prevaricazione nelle quali alcuni nostri ci hanno sguazzato (almeno a parole: come la “pacchia e le crociere” dei migranti nel Mediterraneo…), c’è chi premette: il nostro governo non è razzista, non è fascista ecc.ecc. Razzismo e fascismo sono tutt’altra cosa, andiamoci piano…
Si potrebbe anche essere d’accordo. Ma perché – negli anni del boom economico – quando a Torino (e a Milano) comparivano cartelli sui portoni dei condomìni: “Non si affitta a meridionali” – nessuno faceva riferimento a un De Gasperi o a un Fanfani o a un Segni come a dei razzisti? Ognuno, in piccolo, si prendeva le sue responsabilità. E i suoi vituperi
Nell’epoca dei social – qualcuno non a caso ha definito Facebook una cistifellea, in quanto serbatoio di bile – si registrano delle prove del nove, si vedono colorare cartine di tornasole. Italiani brava gente, dunque? Non significa proprio nulla: il male e il bene – ma forse è anche questo un luogo comune – albergano in ogni uomo.
V’è da dire, guardandosi intorno, che non è che oggi il bene prevalga.
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