Salvini aggiorna pimpante il tabellino: 7-0 del centrodestra al centrosinistra in poco più d’un anno di elezioni periferiche. Centrodestra, appunto. Nome e partnership che peraltro il capo della Lega archivia infastidito a proposito d’alleanza nazionale: rien ne va plus. La “storia infinita” con Di Maio continua, e durerà almeno per l’intera legislatura. Una forte contraddizione. Ma Salvini si giudica più forte delle più forti contraddizioni, verosimilmente dicendo dentro di sé: dove lo trovo un altro donatore di voti/di sangue come Di Maio, ormai disposto a cedere ovunque e disastrosamente pur di rimanere attaccato al Carroccio del potere?
Però esiste il però. Tenersi abbracciato a un perdente del genere non garantisce vittorie sempiterne. La zavorra è zavorra, il suo peso prima o poi si fa sentire e se davvero simul stabunt simul cadent, il rischio di colare a picco insieme appare concreto. Dunque, perché non capitalizzare il consenso-monstre accumulato, rimettere in cattedra all’università Conte e puntare a Palazzo Chigi con una diversa e più omogenea/storica coalizione, recuperando alla causa il tandem Berlusconi-Meloni?
La risposta è semplice. Salvini pensa di fare per conto propro (ius solo), deve semplicemente decidere il momento: se subito dopo le europee, quando i Cinquestelle riceveranno l’ultima prevedibile batosta della fenomenale serie, oppure più avanti. Perché da accollarsi ci saranno le responsabilità d’una manovra 2020 che toglierà un sacco di quattrini dalle tasche degl’italiani, e sarebbe meglio dividersele. Se Di Maio accetta l’ennesimo sacrificio, benissimo e avanti così. Altrimenti si cambia. Ma si cambia prefigurando questo scenario: ciascuno nel centrodestra va per conto suo, immaginando il Capitano che non sia irraggiungibile un suo risultato tale da evitargli la necessità di governare con altri. Lo potrebbe conquistare portando via consensi proprio a Di Maio (ormai parte dell’elettorato grillino è incline alla leghistizzazione) e pescando nel mare magno dell’astensionismo.
È proprio ciò che teme Berlusconi, non a caso insistente sulla necessità del riavvio di passate intese, e con buone ragioni locali: senza Forza Italia, Salvini non avrebbe il potere regionale di cui dispone. L’esito delle europee, che vedranno in campo il Cav con fanfara propagandistica, scioglierà il nodo. Ovvio che potrebbe essere condizionante il risultato ottenuto dal centrosinistra, non tanto per la possibilità di fregiarsi d’un verdetto migliore degli avversari, quanto per il numero di consensi raccolto nell’area cui mira Salvini: post grillini e riluttanti alle urne. Zingaretti e i suoi alleati cercheranno di arare il medesimo campo sul quale traccerà un profondo solco il vicepremier sovranista, sia pure e ovviamente con argomenti in antitesi ai suoi. Con l’idea post-elettorale di riaprire ai Cinquestelle delusi da Di Maio e dall’ala governativa: l’unica chance per i Democrats di rimettersi concretamente in gioco. E per i grillini non salvinisti, idem. Naturalmente nessuno può oggi permettersi un simile cenno di pragmatismo, ma tutti sanno che tale è la posta in palio mentre l’economia tracolla peggio dell’M5s: crescita zero nel 2019 e disperato allarme degl’imprenditori, condiviso da Di Maio che ne è il destinatario assieme al sodale vicepremier, impegnato a definire gufi i critici. Come il Renzi che s’avviava alla débacle.
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